La regina Elisabetta, i reportage di guerra, il lancio dell’Apollo 17, le dimissioni di Nixon, il tour dei Rolling Stones, scatti che hanno reso semplici celebrità delle icone, Annie Leibovitz ha creato miti attraverso la sua fotografia, dal ventesimo al ventunesimo secolo.
Annie Leibovitz nasce nel 1949 da un ufficiale dell’aeronautica USA e un’insegnante di danza classica; gli incarichi del padre contribuiscono ad un’infanzia movimentata. I primi scatti di Annie risalgono al periodo della guerra del Vietnam in una base militare delle Filippine, ed è inevitabile come questo periodo abbia influenzato la fotografa al suo rientro negli Stati Uniti. Durante l’adolescenza frequenterà un corso di pittura e, successivamente, grazie all’incontro con i fotografi Robert Frank e Henri Cartier Bresson apprenderà le tecniche della fotografia e si dedicherà completamente ad essa.
Riassumere la vita e il lavoro della Leibovitz non è cosa semplice, probabilmente non serve essere appassionati di fotografia per aver posato gli occhi, almeno una volta nella vita, su uno dei suoi scatti iconici. Pensiamo a John Lennon abbracciato alla sua Yoko Ono, Demi Moore che posa nuda col pancione o, ancora, Bruce Springsteen di schiena nel suo Born in the U.S.A.
Se volessimo datare l’inizio della sua carriera potremmo optare per il 1970, anno in cui approda nella rivista Rolling Stone, finendo per gestirne la fotografia 10 anni dopo. Un’importante svolta fu il 1975, anno in cui comincia a seguire i Rolling Stones in tour, immortalandone intimi momenti e dettagli che si colgono soltanto lavorando a stretto contatto con gli artisti. All’inizio degli anni’80, esattamente dopo la morte di John Lennon, catturato da Annie poche ore prima, comincia il suo percorso di disintossicazione. Dopo aver terminato il suo percorso con la rivista Rolling Stone, inizia a lavorare per Vogue e Vanity Fair, diventando presto la fotografa più bramata dalle celebrità.
Il rapporto con Susan Sontag
All’età di 39 anni, nel 1988, avviene l’incontro con la regista e scrittrice Susan Sontag, la quale diventerà sua compagna di vita. A detta di molti, viste dall’esterno, erano un match bizzarro, contrastato dalla serietà della scrittrice e il tumulto di celebrità intorno alla fotografa. Ma Leibovitz ha confessato che, per quanto Susan potesse amare un documentario tedesco di 9 ore, non era insolito che fosse proprio quest’ultima a trascinarla a vedere qualche film dozzinale con Keanu Reeves piuttosto che il contrario. Susan era una donna forte, considerata da tutti come tale, ma aveva una sua vulnerabilità, che è stata con cura immortalata in una pubblicazione del 2006.
In quell’anno esce A Photographer’s Life: 1990-2005, pubblicato da Jonathan Cape, una raccolta di vita lunga 15 anni che rivela la conoscenza tra le due donne, fotografie personali che ritraggono genitori, figli, fratelli; lavori professionali che comprendono le numerose cover e ritratti di star hollywoodiane, ma anche paesaggi e reportage di guerra; foto della Leibovitz e della Sontag in giro per il mondo, nelle loro case tra Parigi e New York, dove vivevano in un appartamento l’una di fronte l’altra.
Almeno in pubblico, le due non si sono mai proclamate una coppia; secondo quanto riportato da Annie parole come “partner” o “compagna” non appartenevano al loro vocabolario, la fotografa preferiva definire il loro rapporto come una “amicizia” tra due donne impegnate ad aiutarsi e supportarsi l’una con l’altra nel corso della vita.
Durante le ultime settimane di vita di Susan, malata da tempo di leucemia, il padre della Leibovitz morì di cancro ai polmoni, e figura anche lui nel libro; una strana somiglianza che ci porta a pensare la morte come qualcosa di eguale e democratico. Il libro parla innegabilmente di morte, ma anche di vita, in quanto nel 2001 nasce Sarah, la figlia di Annie che Susan farà in tempo a conoscere, e dopo la morte di quest’ultima nel 2004, nascono i gemelli di Annie con l’aiuto di una madre surrogata. Un ciclo di vita che segue il suo corso. Dopo la morte di Susan, Annie decise di mettere insieme tutte quelle fotografie per farne una memoria da donare ad amici e familiari, seppure le immagini sono intime, forti, come quelle che ritraggono Susan durante la malattia e, infine, la morte.
Il ritorno al fotogiornalismo
Nel 1993, Susan Sontag si diresse a Sarajevo insieme ad un gruppo di attori contrariati dal comportamento dei governi occidentali che non si stavano attivando per fermare l’avanzata dei Serbi. Si recò in quella terra consapevole di non poter fare molto di fronte a tali orrori ed ingiustizie, se non esercitare la sua arte, e dunque scrivere e dirigere spettacoli, portando perlomeno qualcosa di unico alla gente. L’atteggiamento della Sontag smosse qualcosa in Annie Leibovitz, la quale decise di tornare appieno nel mondo del fotogiornalismo.
Nell’estate del 1993 Annie arrivò a Sarajevo, che da un anno circa si trovava sotto assedio. I bombardamenti da parte dei Serbi erano all’ordine del giorno, mancavano beni di prima necessità, l’acqua e i medicinali scarseggiavano, i cecchini sparavano a caso, in modalità random, così come random era la morte, sottolinea Leibovitz. In Annie Leibovitz – At Work, la fotografa racconta di come Hasan Gluhić fosse la sua guida e la trasportasse ovunque, anche il giorno in cui si recarono nell’appartamento di Miss Sarajevo Assediata, un concorso nato contro la guerra. C’era dell’ironia considerato che Miss Besieged Sarajevo vivesse proprio in una zona della città particolarmente bombardata. Nel libro, Leibovitz ricorda anche che, attraversando quel quartiere, un colpo di mortaio colpì davanti ai loro occhi un ragazzino in bicicletta aprendogli un enorme ferita lungo la schiena, in seguito lo caricarono in auto verso l’ospedale ma morì durante la corsa.
“Le preoccupazioni che avevo prima di partire per Sarajevo riguardo che tipo di foto avrei scattato, svanirono semplicemente stando lì. Non c’era tempo di preoccuparsi se stessi facendo un ritratto o qualche altra foto. Le cose accadevano troppo in fretta. Potevi solo rispondere.”
Durante il suo secondo viaggio a Sarajevo, mentre camminava per strada, Leibovitz vide morire un altro ragazzo in bicicletta che stava tornando a casa, scattò quella che divenne una delle sue fotografie più celebri, un’immagine emotivamente forte, in cui la bicicletta passa da simbolo di gioventù a una spenta scia di sangue sul terreno. Leibovitz utilizzò il bianco e nero, forse non a caso, così da poter sospendere per un momento i preconcetti sulla guerra, nessun rosso sangue, solo la palese assenza di qualcuno, che ricorda quanto le circostanze di morte siano la vera imprevedibilità della vita.
Dopo Sarajevo, Leibovitz, si diresse verso la Bosnia ed Erzegovina fino ad arrivare in Ruanda, dove era in atto un massacro verso i civili Tutsi, meglio ancora, un genocidio mai dichiarato. Al suo arrivo si era tutto concluso, visitò la Shangi Mission School dove studenti e civili Tutsi tentarono di trovare riparo dalla milizia, senza successo. Leibovitz immortalò le impronte insanguinate di mani e piedi all’interno del bagno della scuola, dove i rifugiati cercarono invano di fuggire. Nel 1998 è il periodo di Vogue, per la quale Leibovitz comincia a lavorare regolarmente dando maggiore sfogo alla creatività grazie a set fantasiosi e svariati personaggi celebri.
Nel 1999 esce Women, libro nato in collaborazione con Susan Sontag. Nel volume vengono presentati i pregiudizi culturali della società nei confronti della figura femminile, l’immaginario della femmina sottomessa viene smentito da immagini che esaltano la grandezza della donna. Parlando di Women, Susan Sontag spiega come l’immagine della donna, stereotipata dallo sguardo maschile viene usurpata; ci si dirige, così, verso l’identità della donna alla fine del XX secolo. Il libro ebbe un notevole successo sia per la tematica, sia perché il volume proveniva da due figure di rilievo della scena americana, non solo artistica, ma soprattutto culturale. A detta di molti, l’impatto che il libro avrebbe avuto nella cultura sarebbe stato di livello universale.
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