Se pensate che la fotografia sia quel mezzo capace di cogliere l’istantanea del reale, ed il fotografo abbia il solo compito di registrare quello che gli accade intorno, stando “in agguato”, in attesa che quell’attimo perfetto si manifesti, allora non conoscete Gregory Crewdson.
Paladino della staged photography, Crewdson è uno dei più importanti e apprezzati fotografi contemporanei, e a Torino, alle Gallerie d’Italia, nella mostra Gregory Crewdson. Eveningside per la prima volta presenta tutte e tre le serie realizzate tra il 2012 ed il 2022.
La serie Eveningside commissionata appositamente da Intesa Sanpaolo, esposta in anteprima internazionale alle Gallerie d’Italia, rappresenta l’ultimo capitolo di una trilogia iniziata dieci anni prima con la straordinaria serie Cathedral of the Pines (2012-14) e proseguita con la serie An Eclipse of Moth (2018-19).
Esposti in mostra, appositamente per l’occasione, anche gli scatti intimisti e meditativi della serie Fireflies realizzata dall’artista nel 1996 con due macchine fotografiche su pellicola analogica in bianco e nero.
La fotografia di Crewdson: allestire lo scatto
La fotografia di Crewdson rappresenta la concreta materializzazione delle sue idee: tutto è studiato e calcolato per tradurre sulla pellicola la sua visione delle cose.
Crewdson si muove più come un direttore della fotografia o un regista di lungometraggi, che come un semplice fotografo, attorno ad ogni suo scatto lavorano una cinquantina di persone, una vera e propria troupe cinematografica. Grazie anche ad un intenso lavoro di post-produzione, impiega diverse settimane per completare una singola foto.
Allestisce i suoi set come veri e propri set cinematografici, ricorrendo se necessario ad artigiani e carpentieri in grado di ricreare perfettamente quello che ha in mente.
L’esatta quantità di luce, le tonalità dei colori, la posizione degli oggetti e persino determinati agenti atmosferici come la nebbia o l’acqua sono ricreati in studio per trasmutare i suoi pensieri nella realtà di uno scatto.
Crewdson non si limita a fotografare la realtà come vorrebbe che fosse, ma la ricostruisce come vuole che sia, dando vita di volta in volta a tutte le sue proiezioni mentali.
Ed è proprio nella cinematografica potenza del mezzo fotografico che si trova la forza del suo lavoro.
Le sue foto, tutte in formato molto grande, lo hanno reso un autorevole interprete del “sogno americano”, con tutte le sue contraddizioni e le sue zone d’ombra, alla pari dei più importanti narratori statunitensi come Don DeLillo, Raymond Carver e Sam Shepard.
Crewdson, tramite i dettagli più nascosti delle sue immagini, instaura con l’osservatore un dialogo continuo, affinché, come in un rebus, lo spettatore possa ricostruire dentro la foto la psicologia dell’autore.
Cathedral of the Pines, il perturbante nelle pieghe del reale
Nella serie Cathedral of the Pines, che prende il nome da un sentiero nel cuore delle foreste di Beckett, Massachusetts, dove il fotografo era andato a vivere dopo un divorzio nel 2012, alloggiando in una chiesa sconsacrata, Crewdson approfondisce alcuni dei grandi temi universali come il rapporto tra uomo e natura o separazione e relazione, permeati dalla meditazione su alcune tematiche più intime e personali.
È in mezzo ai maestosi boschi di pini che il fotografo ritrova l’ispirazione e la vena creativa dopo un lungo periodo di inattività durato tre anni. In mezzo agli impervi sentieri di una natura che, come nella grande tradizione pittorica del diciannovesimo secolo, riflette gli stati d’animo dell’autore, Crewdson mette in scena i suoi drammi psicologici cercando di esorcizzarli nella ricerca di un rifugio.
Ma tramite l’estremo realismo della composizione, i contrasti tra i toni più saturi e una luce diafana, le sue composizioni evocano atmosfere cinematografiche che non possono non riportare alla mente il David Lynch di Twin Peaks e la messa in scena di quel perturbante che si nasconde tra le pieghe del reale.
Dietro ogni gesto quotidiano si cela una sensazione di straniamento: Il taglio dei capelli di una giovane donna che stringe una forbice in mano come fosse l’arma di un delitto; o una ragazza che seppellisce un passerotto appena morto in un capanno che sembra abbandonato, con la luce che filtra da una finestra e colpisce l’uccello come se lo tingesse di colore per la prima volta.
Ogni scena è costruita come se fosse una scena del crimine, come se da un momento all’altro qualcosa di ancora innominato dovesse irrompere a conclusione di una tensione sapientemente costruita.
“La fotografia, infatti, rimane muta”, il tempo si blocca, non esiste né un prima né un dopo.
In quello che il fotografo ha definito il suo lavoro più intimo, emerge la sfida che l’autore stesso lancia allo spettatore, quella di cercare di dipanare il groviglio psicologico e interiore che si nasconde nelle scenografie domestiche delle case, immerse nella neve e circondate dai boschi, così da capire quale sarà il destino dei personaggi rappresentati.
An Eclipse of Moth, la crisi del sogno americano
In An Eclipse of Moth, al contrario il suo lavoro più politico, l’autore mette in scena la crisi del polo industriale della cittadina di Pittsfield, città natale della compagna ed interprete di molte foto, Juliane Hiam.
Nella desolante realtà distopica di una città completamente abbandonata, e negli sguardi alienati e distratti dei suoi abitanti, Crewdson che ha creato questa serie negli anni dell’elezione di Donald Trump, ammanta le sue scene urbane della stessa alienazione che si trova nei quadri di Hopper (al quale l’autore ha sempre dichiarato di ispirarsi). Raccontando così i tragici effetti della crisi causata da un capitalismo fagocitante che ha raggiunto il suo culmine con l’elezione del tycoon sullo scranno più alto della politica statunitense.
Nelle case, nelle strade, nelle aree metropolitane desolate come un deposito dei taxi o complessi industriali abbandonati o i bar e i diners anch’essi abbandonati, Crewdson ci descrive la crisi di una società e di un paese, mettendo in scena una serie di narrazioni inquietanti, e rendendo viva quella stranezza che si cela nelle pieghe della narrazione ufficiale del “grande romanzo americano”.
Utilizzando di volta in volta il linguaggio cinematografico dei film di fantascienza o quello dei thriller, l’autore fotografa gli abitanti delle piccole città americane colti nella loro spaesatezza e alienazione, ma senza cadere mai nel disincanto.
Con la stessa attenzione di una Diane Arbus, cerca di avvicinare i protagonisti delle sue immagini all’osservatore, nella ricerca comune di una qualche forma di trascendenza, di speranza e perché no di redenzione, attraverso la luce che pervade tutte le scene e la natura che, seppur ai margini dell’abitato, è sopravvissuta, e continua a crescere mentre tutto intorno la civiltà, nei suoi simboli urbani, decade.
Eveningside, la ricerca di un posto migliore
Nell’ultimo capitolo della trilogia Eveningside, il fotografo sperimenta il linguaggio della fotografia in bianco e nero.
Il processo della staged photography è portato alle sue estreme conseguenze con la creazione di una cittadina fittizia, Eveningside per l’appunto, che diventa lo scenario ideale dove poter proiettare tutto il suo mondo interiore.
Le atmosfere cupe e sospese sono quelle del cinema noir.
Con questa serie il fotografo si pone nel solco dei grandi maestri del cinema americano come Alfred Hitchcock, e come Hitchcock, Crewdson costruisce le sue foto secondo i codici della suspense e del giallo.
Ma la ricerca alla quale i protagonisti spaesati di questi ambienti metropolitani si applicano, non è quella di un “colpevole”, ma bensì di un posto diverso dove poter vivere una vita migliore.
Nei suoi viaggi urbani che come la grande narrativa on the road ci guidano per le strade, lungo i locali ed i negozi della grande provincia americana, Crewdson ci porta alla ricerca di un rifugio (come in Cathedral of the Pines) dove l’uomo possa di nuovo ritrovare se stesso.
Fireflies, lucciole chiuse in un barattolo
Infine in mostra sono esposti gli scatti della serie Fireflies.
Realizzata nel 1996 a seguito di un lungo periodo di crisi, queste immagini di lucciole in bianco e nero, sono straordinarie nella loro immediatezza e ci offrono il perfetto contrappunto al suo modus operandi classico.
Il fotografo infatti andava in giro per la campagna al crepuscolo con delle zanzariere e contenitori in vetro per catturare le lucciole e ridefinire il loro percorso.
Le scie luminose e i punti di luce che gli insetti dipingono nei campi o costretti nei barattoli, sono come dei fotoni rilasciati da una stella morente.
Questa serie ci mostra l’attitudine di Crewdson alla meditazione e di fatto, seppur per la prima volta in maniera minimal e intimista, questo approccio meditativo è lo stesso che si cela dietro le articolate preparazioni delle sue serie staged.
L’autore cerca di tradurre con ogni mezzo l’idea che ha in mente mettendo in scena una realtà in crisi dove l’uomo ha perso il suo ruolo nel mondo in special modo il suo posto a fianco alla natura.
Nella serie Fireflies è il fotografo stesso che in uno stato di meditabonda accettazione riconosce il suo posto nel mondo, incurante della sua finitudine e minutezza nei confronti del cosmo:
We are photons released from a dying star
We are fireflies a child has trapped in a jar
And everything is distant as the stars
I am here and you are where you are.
Nick Cave, Fireflies1.
1 Siamo fotoni rilasciati da una stella morente/ siamo lucciole che un bambino ha intrappolato in un barattolo/ ed ogni cosa è lontana come le stelle/ io sono qui e tu sei dove sei
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Un ciclopico commento accompagna l’arte facendotene innamorare.
Complimenti Francesco la freschezza del tuo scrivere rende lieta l’ arte ed insegna ad amarla