L’undici novembre 1971 usciva per l’etichetta Produttori Associati “Non al denaro, non all’amore né al cielo“, quinto disco in studio di Fabrizio De André e suo terzo concept album, ispirato com’è noto alla “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters. Ora, cinquant’anni dopo andiamo alla riscoperta dell’opera e dei suoi personaggi che dormono ancora sulla Collina dove li abbiamo lasciati e continuano a raccontare di loro stessi e anche di noi.
La collina di Spoon River – L’Antologia di Masters
Nella sua opera Masters immagina un paesino immaginario che possa incarnare la realtà della provincia campagnola nel Sud degli Stati Uniti. Lo chiama Spoon River, ispirandosi al nome vero di un fiume della sua città e, anziché raccontarlo attraverso le storie dei cittadini vivi, affida la narrazione alla schietta onestà dei defunti.
Sono 243 nella versione definitiva gli epitaffi autobiografici attraverso i quali accediamo al microcosmo di Spoon River. Ogni ex abitante del paesino, ormai destinato ad abitare per sempre nel cimitero della collina soprastante, ci racconta la sua esistenza con l’onestà che solo chi non deve più fare i conti con la vita può avere.
E così, con tono dolceamaro, passano in rassegna piccole e grandi miserie quotidiane, tanti vizi e poche virtù, tragedie e sfortune, speranze e illusioni ormai dissipate. Non è solo il ritratto di un paesino rurale americano di inizio novecento, ma della tragicommedia umana in senso molto più ampio.
Masters in Italia
La prima edizione italiana fu pubblicata dalla Einaudi nel 1943, con traduzione di Fernanda Pivano, su forte spinta di Cesare Pavese, subito censurata e ritirata dal mercato. Fu poi ripubblicato, previo un cambio di copertina giudicata oscena dall’autorità fascista con l’arresto e la carcerazione di Pivano stesso.
Il vero ostracismo era però in realtà dovuto al forte spirito libertario e anticonformista in essa contenuto. Le sue pagine contengono un forte antimilitarismo e un’accusa alla società piccolo borghese fatta di dogmi e convenzioni.
Era inevitabile che un libro di tale portata colpisse Fabrizio De André, artista inquieto e anarchico, che fin dalle sue prime composizioni aveva fatto dello sberleffo all’ipocrisia del mondo convenzionale, moralista e istituzionale un punto centrale della sua poetica.
Non al denaro, non all’amore né al cielo – L’antologia di De André
De André inizia così a lavorare ad un progetto ispirato all’Antologia in collaborazione con il paroliere Giuseppe Bentivoglio, con cui divise la scrittura dei testi, e con il giovane musicista Nicola Piovani, principale artefice della partitura musicale.
L’idea di base è quella di prendere una rosa di epitaffi mastersiani, otto personaggi più un prologo e riscriverli senza snaturarne l’essenza. I nomi propri vengono eliminati chiamando i personaggi solo con la loro professione o caratteristiche. Tutti salvo un’eccezione, come vedremo.
Andiamo dunque a conoscere coloro che dormono sulla collina, dalla penna di Masters filtrati nelle parole di De André, Bentivoglio e Piovani.
Dormono, dormono sulla collina – La collina
Il disco si apre con La collina, fedele trasposizione di The Hill, il poemetto posto in apertura all’Antologia. Confrontando le due versioni si possono notare pochissime differenze. La canzone incede con una melodia sinistra raccontando brevemente il motivo della dipartita degli abitanti del cimitero.
Per De André è l’occasione di riproporre attraverso Masters alcuni dei suoi leitmotiv preferiti. Dalle prostitute, muse sempiterne, con Meg che morì fra le mani di un bruto in un bordello che qui viene più poeticamente Uccisa dalle carezze di un animale, all’antimilitarismo dei figli della guerra, le cui spoglie sono state riportate a casa avvolte nelle bandiere legate strette perché sembrassero intere.
Chiude il brano il riferimento al suonatore Jones, unico personaggio che ritornerà in seguito, la cui filosofia di vita di offrire la faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero non al denaro, non all’amore né al cielo, dà il titolo all’album.
Tu prova ad avere un mondo nel cuore – Un matto
Il secondo brano è Un matto, che nell’originale si chiamava Frank Drummer e che dà inizio alla prima sessione di personaggi idealmente basata sull’invidia.
Quella del matto è la storia dello scemo del paese (argutamente il sottotitolo recita Dietro ogni scemo c’è un villaggio) che, incapace di far comprendere il mondo interiore che si porta appresso, decide di farsi prendere sul serio a tutti i costi e si butta nella bizzarra impresa di imparare La Treccani a memoria (nell’epitaffio originale era l’Enciclopedia Britannica) finendo per essere considerato seriamente matto da rinchiudere.
Se il poemetto di Masters è estremamente sintetico, soprattutto sulla sorte del povero Drummer (Da una cella a questo luogo buio ci viene detto nell’incipit), De André si sofferma molto di più sulla sua dipartita in manicomio e sull’ipocrisia perbenista di chi, dopo averlo deriso da vivo, lo piange con caustico pietismo da morto.
È triste trovarsi adulti senza essere cresciuti – Un giudice
Segue Un giudice, ovvero Selah LIvely. Nell’antologia costui è un uomo di bassissima statura che con impegno e abnegazione riesce a diventare magistrato. Usa quindi il suo potere per farla pagare a chi in gioventù lo aveva impunemente deriso. De André segue fedelmente la narrazione di base ma con due aggiunte fondamentali.
Il piccolo giudice infatti sopporta anche le piccanti insinuazioni delle ragazze convinte che la sua altezza sia inversamente proporzionale al suo organo sessuale.
Llively in De André diventa una sorta di personificazione del livore e del rancore, di una cattiveria tanto grande compressa in un corpo tanto piccolo, ben sintetizzata nella frase, che con un certo imbarazzo il cantautore chiese il permesso a Fernanda Pivano di poter inserire, un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo troppo vicino al buco del culo.
La seconda aggiunta è nel finale dove il magistrato s’inginocchia nel momento del trapasso, prevenendo l’eventualità di essere più alto dell’Onnipotente.
La canzone è probabilmente una delle più note dell’album soprattutto per il fatto di essere stata riarrangiata dalla PFM nel celebre tour del 1979, arricchita con una irresistibile fisarmonica.
Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino – Un blasfemo
Dopo il giudice è il turno di Un blasfemo, ovvero Wendell P. Bloyd, bestemmiatore e libertino ucciso di botte in manicomio, che pure nell’aldilà continua ad accusare Dio di essere stato un ingannatore delle genti citando passi della Bibbia per dimostrarne l’immoralità. Musicalmente ispirata a Rambleaway, un pezzo folk irlandese di Shirley Collins, la canzone segue fedelmente l’epitaffio di Masters modificandone tuttavia il finale.
Se infatti il Bloyd originale nel suo j’accuse aveva sempre Dio come bersaglio, qui è invece colui che l’ha inventato l’obiettivo finale, chi ne usa il nome per imporre dogmi e restrizioni, per costringere insomma a sognare in un giardino incantato e in effetti, come recita il sottotitolo, dietro ogni blasfemo c’è un giardino incantato.
Come spesso accade nell’album, alcuni dei versi di prosimetro asciutto di Masters vengono qui resi come una più delicata ed efficace sensibilità, e così l’infermiere cattolico che uccide il blasfemo diventa due guardie bigotte che gli cercarono l’anima a forza di botte.
E non poter mai bere alla coppa d’un fiato – Un malato di cuore
Chiude il lato A del disco Un malato di cuore, ovvero Francis Turner, che mai poté fare grandi sforzi, correre, giocare o bere tutto d’un fiato a causa degli effetti della scarlattina sulla sua respirazione, e che morì libero e felice baciando Mary con tale passione da fermargli veramente il cuore.
Per De André è un esempio perfetto di chi trova una forma di riscatto in extremis. Il momento più felice e liberatorio della sua esistenza che coincide anche con l’ultimo.
È una storia sicuramente più delicata e meno violenta di quelle viste fino a questo momento. L’invidia del malato di cuore, quella per gli altri e la loro esistenza sana, non lo ha consumato e per un fugace momento gli è stata data la possibilità di assaggiare cosa provano le persone che non devono farsi narrare la vita dagli occhi.
E non per un dio ma nemmeno per gioco – Un medico
Il lato B, idealmente dedicato alla scienza, si apre invece con Un medico, ovvero il dottor Sigfried Iseman che cercò di usare la sua professione per aiutare il prossimo con carità cristiana. Presto si accorge che l’unico esito del suo buon cuore è prendersi carico di pazienti senza un soldo; si reinventa dispensatore di elisir magici e viene arrestato.
Tra le aggiunte deandreiane c’è l’incipit con il medico bambino che sogna di guarire i ciliegi, che aggiunge un tocco di autentica passione in più al personaggio per il mestiere che riesce a conquistarsi, nell’ingenua convinzione di poterlo esercitare non per un dio, ma nemmeno per gioco con lo stesso spirito di disinteressato amore per il prossimo che aveva nell’infanzia.
La scoperta del cinismo che permea la realtà modifica inesorabilmente le cose. La passione e il lavoro sono due facce opposte della medaglia in un mondo dove solidarietà tra colleghi e riconoscenza dei clienti non esistono; l’unico modo per non essere presi per fame è cercare di frodarlo, tradire definitivamente i sogni di onestà e farsi truffatori del prossimo.
Solo la morte mi ha portato in collina – Un chimico
È il turno di Un chimico, ovvero Trainor il farmacista, che visse comprendendo solo le reazioni tra elementi e non quelle tra esseri umani, tanto che morì tentando un esperimento senza aver mai trovato una compagna di vita.
Il testo originale, scarno e asciutto, si integra qui con diverse intuizioni poetiche da parte di De André che trasforma frasi come E chi può dire come uomini e donne reagiranno insieme e che figli ne usciranno? in Ma gli uomini mai mi riuscì di capire perché si combinassero attraverso l’amore affidando ad un gioco la gioia e il dolore, e apportando suggestive aggiunte come il riferimento all’incedere della Primavera, nella quale viene metaforizzato l’amore carnale e la combinazione chimica tra idrogeno e ossigeno.
Trainor può essere quasi una sorta di antitesi di Francis Turner. Morto tra le braccia dell’amore quest’ultimo e morto tra le braccia della scienza senza un posto per l’amore il primo.
Faremo gli occhiali così – Un ottico
Dopo il chimico troviamo invece Un ottico, alias Dippold l’ottico, probabilmente il brano più criptico e onirico tra quelli proposti. Lo stesso epitaffio originale non fornisce molte delucidazioni sul personaggio in questione. Più che un racconto della sua vita è un monologo a due voci. Una rievocazione della sua professione in cui domanda ad un ipotetico cliente gli effetti riscontrati provando le sue lenti.
Ma le risposte del cliente, bizzarre e surreali, lasciano intuire che per il reale mestiere di Dippold, più che l’ottico, sia il mercante di stupefacenti.
De André sembra fare propria questa tesi, spacciatore di lenti fa autodefinire il personaggio, e il pezzo stesso si tramuta in un’esperienza borroughsiana, parte come un valzer sbilenco e poi con l’attacco di chitarra elettrica sulla Primavera di Vivaldi ci trasporta in una sorta di viaggio extrasensoriale fatto di voci distorte ed echeggianti che ci sussurrano di fiumi dentro le vene cercano il loro male e gendarmi che pascolano donne chine sulla rugiada. Resta nel finale il riferimento mastersiano alla luce che trasforma il mondo in un giocattolo, che ben sintetizza le percezioni di sfasamento dalla realtà create dall’uso di sostanze psicotrope.
Libertà l’ho vista svegliarsi ogni volta che ho suonato – Il suonatore Jones
Chiude il viaggio sulla collina di Spoon River il Suonatore Jones, come anticipato l’unico personaggio chiamato con il suo nome e non semplicemente con la sua professione, che nell’Antologia è più specificatamente un fiddler, ovvero un violinista, ma qui per motivi di metrica diviene un suonatore di flauto.
Il motivo per cui quest’ultimo personaggio gode di una particolare attenzione è facilmente intuibile. De André vede nel violinista di Spoon River non tanto una sua proiezione, quanto qualcuno a cui vorrebbe intimamente assomigliare, pur non riuscendoci del tutto.
Jones è uno che vola sulle responsabilità della vita, vive per un puro e genuino bisogno di libertà. Quella libertà che non si trova nel denaro, nell’amore e nel cielo, inteso come la speranza del paradiso. Muore con tanti ricordi e nemmeno un rimpianto, dopo una vita passata a suonare unicamente per il puro piacere di farlo.
Ha espresso il suo mondo senza esserne assoggettato come il matto e non ha ceduto all’invidia verso il prossimo come il giudice. Non ha mai discusso con Dio come il blasfemo. Non ha patito l’amore come il malato di cuore ma nemmeno è diventato freddo come il chimico. Infine ha potuto vivere con ciò che amava senza cedere al sistema come il medico.
E dormono ancora sulla collina – Epilogo
Probabilmente a De André sarebbe piaciuto che gli toccasse suonare per tutta la vita piacendo lasciarsi ascoltare, mentre come si sa il suo rapporto con la musica e con i fan, nel terrore di dover essere costantemente un intrattenitore e non una persona, fu per lungo tempo complesso e travagliato; fece pace con il suo mestiere di cantautore solo quando riuscì a realizzarsi in quello di contadino.
Si potrebbe dire che Jones e De André sono l’uno il ritratto di come l’altro avrebbe potuto essere. Come a tanti piacerebbe se si prendesse la vita non come una condanna in cui essere ciò che gli altri si aspettano da noi. Una volta che saremo sulla collina in fondo, saremo davvero tutti uguali.
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