ExGarage: “Peace’s – The Exhibition”
Quando si semina si raccoglie. Così dicono… più o meno, e con più di una licenza d’artista.
Spesso si semina ma va tutto a puttana. In breve non si raccoglie.
Si cerca di fare le cose con metodo, ordine, sistematicità ma tutto evolve in senso opposto dovuto a fattori interni ed esterni: piogge, siccità, terremoti e maremoti o ritardata veglia, tradotto… incuria.
La situazione comincia a farsi ingarbugliata e in faccende del genere entra in ballo la fisica per dirimere ogni dubbio e mettersi l’anima in pace.
Ogni sistema è tendente al disordine, ambisce al casino, desidera il caos, è insofferente alle masse riunite in maniera virtuosa e ordinata, ripudia le file e corre alla rinfusa incamerando progressivamente energia.
Tutto questo si chiama entropia, giochini di termodinamica e meccanica quantistica.
Quando l’accelerazione verso il disordine diviene incontrollabile, supera l’inimmaginabile gravitazionale, elettromagnetico e nucleare è la fine.
In breve non ci saremo più ma rimarranno i miracoli che è pur sempre bene averli prima, piuttosto che un poi, e non è una questione di fede.
Se scoppia una guerra è perché per troppo tempo abbiamo scoreggiato pace senza farla evolvere in un campo meno disseminato di peti e non abbiamo salvaguardato una sana entropia, limitando l’incontrollata crescita energetica.
Tutto chiaro? Mmmm!
Ma ecco i miracoli, uno solo ben fatto, il miracolo sull’orlo dell’abisso proprio poco prima che si schiacci il pulsante rosso, autoflagellante determinazione di massimo dispendio energetico: deflagrazione atomica.
Titoli di coda! Fine! Booom!
Ma andiamo con ordine e mettiamo i piedi in terra. In Terra.
Una mostra all’ExGarage di Roma vide… per miracolo scomparire le opere esposte.
Vendute? Forse!
Ritirate dagli artisti? Probabile!
Perse nel nulla? Risposta mai pervenuta!
Dieci artisti, autoproclamatosi collettivo Silver Studio, si ritrovarono insubordinatamente a confabulare tra loro e sarà il caso di citarli in ordine alfabetico per non veder crescere, nel caso di loro spasmodica lettura, il grado di entropia interno: Biagio Castilletti, Cristina Pedersoli, Daniele Meli Salvadori, Fabio Ferrone Viola, Irem Incedayi, Luigi Folliero, Micaela Legnaioli, Pennyboy, Valentina Mori, Valeria Magini.
La galleria d’arte Pavart, tesa a creare il giusto equilibrio di gruppo, si disse estranea all’evento ma sia Velia Littera che Deborah Mennella, responsabili di spazio e di artisti, si resero disponibili per futuri accertamenti.
Il primo messaggio fu chiarissimo: E50/M12
Il secondo ancor di più: 32 ore.
Fu a tutti chiaro che stava scadendo il tempo per predisporre un’azione pacificamente cruenta al raggiungimento del grado di entropia massima ma non sono mai gli uomini a decidere ma le loro opere.
Opere? Opere!
Per capire bene la faccenda si dovrà raccontare anche di alcune cartoline giunte all’ExGarage e alla galleria Pavart dal GRA (Grande Raccordo Anulare di Roma). Altre a tempo scaduto al RAW (Rome Art Week) ma poi da Trieste, da Budapest, e fin qui è faccenda di geografia di base, ma poi anche da Mukacheve, Ternopil, Uman e lì quel che apparivano immense erano le distese di grano in un mondo infinito che s’era paradossalmente lasciato dietro luoghi forse più cupi.
A mandarle, da lì, da quei luoghi erano loro: una sterminata e pacificamente attivissima popolazione di matrioske.
Una di loro al controllo di frontiera fu gentile e sintetica: “2684 Km dal Grande Raccordo Anulare?”
“Non saprei fu la risposta indefinita di indefinito soggetto.”
“E50/M12 per 32 ore di tragitto. Google Maps non sbaglia mai,” concluse in sintesi un’altra occhialuta matrioska.
Personaggi strani, queste matrioske, che sembravano riprodursi a vista d’occhio con una saggia e inconsueta opera chimico naturalistica di copia/incolla.
Comunque era indubbio che stessero compiendo un’operazione sul campo del tutto eccezionale.
Tutto sembrava stranamente più calmo e pacifico.
Eppure durante il percorso c’erano stati dei segnali stradali assai chiari, niente a che vedere con i limiti di velocità o divieti di sosta.
Tutto più semplice, limpido e solare perché era evidente la proposta di nuove lezioni di guida per il genere umano.
Alcuni cartelli forse un po’ più inquietanti ma presumibilmente posti a ricordare i rischi e quindi l’avvertenza a sonore multe anche al solo uso di cerbottane e mazzafionde.
All’altezza di Mykolaiv la geografia cominciava a schiarirsi con due segnali inequivocabili: mappamondo e mappa anche se, onestamente, oltremodo generici.
Poi ovviamente ci sono i cucuzzoni, i soliti che si elevano pur non capendo un cazzo e troppe volte si affidano ai segni magici, quelli che vengono da luoghi misteriosi e inaccessibili.
Per costoro doveva essere di grande aiuto un altro inequivocabile e basilare contributo. Rivolgersi al cielo o ancor meglio alle stelle in mancanza di sostegno terrestre.
Bisognerà poi a questo punto stabilire se l’arte è più umana degli umani o se gli umani sono più arte dell’arte stessa.
Certo se si gioca a ritmo di guerra, come detto sale l’entropia e aumenta il grado di disordine e il gran guazzabuglio che ne scaturisce è arte allo stato puro, con colori tendenti quasi sempre al rosso.
Ecco poi che dall’inesorabile Wikipedia ne esce un… “voglio che il rosso sia sonoro e squillante come una campana, quando non ci riesco aggiungo altri rossi ed altri colori finché non l’ottengo.” (Pierre-Auguste Renoir).
E’ certamente per questa ragione che calata la notte, dalle parti di Cherson, alzando lo sguardo al cielo la luna appariva di un bel rosso vivo.
Una luna finalmente nuova, splendente, pacifica e ammonitiva.
Proprio a Cherson, oramai bellissima e tranquilla, forse in passato doveva essere accaduto qualcosa di tremendo, tale da far contorcere anche una Jessica Rabbit al punto da spiaccicarla per sempre su una lastra contorta di zinco. Forse un effetto esplosivo nucleare ridotto, locale. Niente di che, faccende di elettroni impazziti.
Qui i segnali si facevano urlanti e forse gridavano… pace.
Da questo punto in poi la storia, quella narrata e verissima, diventa fiaba perché quella notte piovvero dal celo fiori sparati da nuovi e dorati cannoni.
Poi su lastre di zinco, sotto montagne di fiori adagiati a sfiorare la riva di un fiume consonanticamente innominabile, Dnepr, dissepolte da quella pacifica popolazione di matrioske apparve chiaro un testo.
In realtà non è che fosse così chiaro perché sui fece uso prima di lenti d’ingrandimento, poi di binocoli, infine di telescopi ma quando il testo è poesia allora per decifrarlo si pensa ad un solo mezzo: il cuore
Imagine there’s no heaven
It’s easy if you try
No hell below us
Above us, only sky
Imagine all the people
Livin’ for today
Ah
Imagine there’s no countries
It isn’t hard to do
Nothing to kill or die for
And no religion, too
Imagine all the people
Livin’ life in peace
You
You may say I’m a dreamer
But I’m not the only one
I hope someday you’ll join us
And the world will be as one
Imagine no possessions
I wonder if you can
No need for greed or hunger
A brotherhood of man
Imagine all the people
Sharing all the world
You
You may say I’m a dreamer
But I’m not the only one
I hope someday you’ll join us
And the world will live as one
Indubbiamente un trattato di pace.
In quell’ormai latino dei tempi moderni ecco scritto il trattato di pace universale per eccellenza, scritto da uno, interpretato da un piccolo gruppo ma divenuto patrimonio universale: “Imagine”.
L’Ucraina era rinata.
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