Il 17 febbraio ricorre la Festa del Gatto, celebrazione nata nel 1990 in onore dell’animale libero e misterioso per eccellenza, domestico o selvatico che sia, da sempre associato all’occulto, all’esoterico e sovrannaturale. Non a caso il gatto è stato ispiratore per molti maestri del terrore e del brivido, sia in forma letteraria che cinematografica. Andiamo dunque a commemorarlo ricordandone alcuni celebri esempi.
Il Gatto: da simbolo della Natura a presagio di sventura
Adorati in tempi antichi da popoli come i fenici e gli egizi, furono proprio questi ultimi che li associarono agli spiriti dei defunti. I greci li collegavano ad Artemide, dea della caccia e protettrice degli animali selvatici, i romani alla corrispettiva Diana, mentre con l’avvento del cristianesimo nell’Europa medievale e rinascimentale divennero un simbolo di sventura, associati alle streghe, ai sabbath satanici, ai riti stregheschi.
Nel Malleus Maleficarum, il famigerato manuale del 1486 per riconoscere le streghe e le loro pratiche, si sosteneva che queste si congiungessero carnalmente con il demonio in persona tramutato in forma felina.
L’associazione dei felini a forze occulte e demoniache non ha mai smesso di affascinare e suggestionare, si pensi soltanto al grasso Behemot, il gatto nero infernale de Il maestro e Margherita di Michail Bulgakov, derivato da un demone biblico dalle forme gigantesche e rappresentato solitamente come un ippopotamo o un elefante.
HPL, Il solitario di Providence
Uno dei maestri del terrore e dell’occulto che più amarono visceralmente i gatti tuttavia, fu certamente Howard Phillips Lovecraft. Il solitario romanziere di Providence, creatore di una mitologia dell’orrore cosmico e del terrore dell’ignoto, fu infatti un vero gattofilo nella sua vita quotidiana e non mancò di dimostrarlo nei suoi scritti. Si dice che Lovecraft possedesse un adorato gatto nero, chiamato Nigger Man, nome che diede adito ad un famoso e controverso dibattito sul presunto razzismo dello scrittore.
In un saggio breve, pubblicato postumo nel 1937, chiamato sinteticamente Cats and Dogs, Lovecraft si lancia in una vera e propria lode descrivendo i gatti come animali dotati di grazia e superiorità, simbolo della fascinazione per l’ignoto, e sostenendo di preferirli ai cani, amati a suo dire da persone primitive e superficiali, incapaci di una visione più introspettiva dell’universo, affermando con efficace semplicità che “Il cane dà, il gatto è“.
A Ulthar non si possono uccidere i gatti
Dedicato ai gatti in qualità di protagonisti è, invece, il racconto breve datato 1920, dal titolo I Gatti di Ulthar. “La Sfinge è cugina del gatto. Parla la sua stessa lingua ma lui è più antico e ricorda cose che essa ha dimenticato” – queste le parole poste nell’introduzione della storia, ambientata nell’omonimo e fittizio paesino del titolo, uno dei tanti luoghi dell’universo parallelo scaturito dall’immaginazione di Lovecraft.
Protagonisti della vicenda sono due anziani e sadici coniugi che provano un perverso piacere nel macellare i gatti che finiscono nelle loro grinfie, e Menes, bambino orfano appartenente ad un clan di zingari girovaghi da poco giunti in città e professanti un misterioso culto pagano, padrone di un piccolo e adorato micino nero.
In poche pagine viene condensata perfettamente la poetica lovecraftiana: la meschinità degli esseri umani condannata e punita ferocemente da forze sovrannaturali antiche e implacabili, che qui si fonde con l’amore dello scrittore per i cugini della Sfinge, tramutati in un letale strumento di vendetta a quattro zampe, in un finale dal gusto macabro e gore.
I Gatti di Ulthar faranno ritorno in un “cammeo” nel romanzo lovecraftiano di ispirazione fantasy La ricerca onirica dello sconosciuto Kadath, dove non sono più semplici animali domestici bensì un vero e proprio popolo di impavidi guerrieri strategicamente organizzati.
Poe e il gatto nel muro
Quasi un secolo prima di Ulthar e dei suoi gatti, un nero felino era già stato protagonista di un altro celebre racconto di un altrettanto celebre esponente dei maestri del terrore, che di Lovecraft fu uno dei principali ispiratori e maestri. Parliamo, ovviamente, di Edgar Allan Poe e dell’iconico racconto The Black Cat del 1843.
Come spesso accade negli scritti dell’autore maledetto di Boston, la narrazione è in prima persona, raccontata da un personaggio che svela al lettore l’inquietante vicenda che lo ha condotto all’arresto e alla condanna a morte.
Come suo consueto, Poe scava nel torbido dell’aberrazione umana, creando suggestioni a metà tra lo stato allucinatorio e il sovrannaturale. Il narratore, individuo incline alla collera facilitata dall’abuso di alcol, uccide brutalmente il suo aggressivo gatto nero Plutone impiccandolo dopo avergli cavato un occhio, ma si ritrova tormentato dallo spirito dell’animale che sembra reincarnarsi in un felino identico, eccetto per una bizzarra macchia bianca sul petto.
Il delirio lo porterà fino all’omicidio della moglie, in un raptus di violenza indirizzata inizialmente verso il gatto, e ad essere scoperto dalla polizia proprio grazie a quest’ultimo, che come una sorta di erinni vendicatrice si materializza nell’incavo di un muro in cui l’uomo ha nascosto il cadavere della consorte, attirando l’attenzione degli agenti.
Il felide diventa qui contemporaneamente simbolo dell’occulto a cui la natura umana non può opporsi e motore della vicenda, quasi un’ossessione del protagonista a compiere il male, che lo condurrà inevitabilmente alla rovina.
Il Cinema Cult del Terrore
La storia è stata, nel secolo successivo, più volte portata sul grande schermo. Tra le varie versioni è doveroso citare almeno I racconti del terrore, del regista di culto Roger Corman, con due volti iconici del cinema dell’orrore come Vincent Price e Peter Lorre, in cui la storia si intreccia con un altro racconto di Poe, ovvero Il barile di Amontillado.
Il losco e violento ubriacone di The Black Cat (interpretato da Lorre) si fonde così con il sadico Montresor che mura vivo in una nicchia il sommelier Fortunato (Price) come tremenda vendetta per l’adulterio con la moglie.
Se nel racconto, oltre a non avere un motivo ben specificato per il suo crudele gesto, Montresor riesce a farla franca, nel film viene invece scoperto proprio grazie al suo odiato gatto nero, che diventa deus ex machina della sua disfatta, miagolando sinistramente dietro all’incavo di mattoni.
Da notare che qualche anno dopo Price e Lorre reciteranno nuovamente insieme nel film Il Clan del Terrore (Comedy of Terrors) una sorta di ghiotta parodia dei loro stessi film horror con parecchi riferimenti poeiani a The Black Cat e alla versione cormaniana de I Racconti del Terrore.
Un terrorista dei generi con un gatto nel cervello
A chiusura di questa sezione merita di essere menzionato uno dei maestri del terrore nostrano ovvero Lucio Fulci, il terrorista di generi come lui stesso si definiva. Curioso a tal proposito è il fatto che in uno dei suoi ultimi film intitolato Un gatto nel cervello, Fulci immagini di avere un felino che scava nella sua scatola cranica producendo un fastidioso rumore e provocando gli incubi e le visioni macabre da cui genera i suoi film.
Nel 1981 Fulci realizza una versione di The Black Cat, dove il proprietario del gatto è un inquietante medium (interpretato da Patrick Magee) in grado di parlare con i defunti e che vive in una sorta di rapporto di assoggettamento con la nera creatura.
Questi compie in sua vece gli omicidi contro i nemici del padrone sfuggendo al suo controllo e anzi, dominandolo e spingendolo in una spirale di follia e di malvagità.
Anche in questo caso resta intatto l’iconico finale con il gatto, dotato di una volontà sovrannaturale, che compie la sua vendetta ultima contro l’uomo, rivelando il tentato omicidio di una ragazza murata viva.
King, l’ultimo maestro del terrore
Chiudiamo infine citando l’ultimo dei maestri del terrore, quello a noi più contemporaneo, che di Poe e di Lovecraft si può a ragione considerare allievo e discepolo, ovvero Stephen King.
Gatti e sovrannaturale trovano una degna collazione nel corpus letterario dello scrittore di Portland in Pet Sematary, del 1983.
Ispirato secondo lo stesso King a un racconto popolare dei primi anni del 1900 intitolato La Zampa di Scimmia, una coppia di coniugi utilizza un amuleto per far tornare in vita il figlio, il quale effettivamente ritorna ma come uno zombie, ne ripropone la stessa dinamica solo che, invece dell’amuleto ricavato da una zampa di animale, qui ritroviamo il sinistro cimitero del titolo, sotto il cui terreno chi ci viene seppellito può tornare dal mondo dei morti, ma non più con le facoltà mentali dei vivi.
I don’t wanna be buried in a Pet Sematary
Il primo personaggio ad essere seppellito nel fantomatico cimitero e a tornarvi come uno spirito demoniaco bramoso di uccidere è proprio Winston “Church” Churchill, il gatto domestico dei Creed, tipica famiglia borghese delle storie di King, destinata alla rovina sia metaforica che letterale come una punizione inesorabile per aver sfidato la morte e aver provato ad esserne superiori.
Il romanzo è stato trasposto cinematograficamente nel 1989, con un sequel nel 1992, ed è diventato pellicola di culto per la canzone omonima dei Ramones inserita nella colonna sonora e ovviamente per il personaggio di Church, indimenticabile gatto satanico dagli occhi gialli e vitrei.
Si è dunque conclusa la carrellata di maestri del terrore e dei gatti che popolano le loro storie orrorifiche. Così ogni volta che incrociate un gatto per strada, o almeno ogni 17 febbraio, ripensate al grande ed oscuro fascino che queste creature hanno saputo creare nella letteratura e nell’arte narrativa in generale. Lode al gatto, la più misteriosa ed esoterica delle creature che popolano il nostro mondo e forse anche l’altro.
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