Questa storia inizia con un evento nefasto che diede vita ad una scoperta davvero sorprendente.
È il gennaio del 1944 e buona parte dell’Italia è sotto i continui ed incessanti bombardamenti Alleati (anglo-americani).
Come tante altre città italiane, Palestrina vede in questi mesi, da gennaio a giugno, la distruzione di importanti edifici pubblici nonché di interi quartieri.
Il quattrocentesco quartiere di Borgo viene completamente squarciato dalle bombe, ed i palazzi di piazza della Cortina, distrutti, non verranno più ricostruiti.
La scoperta del Santuario
Ma sotto le case di quest’area, ridotte oramai ad un cumulo di macerie, avviene una scoperta straordinaria: l’abitato aveva nascosto ed in qualche modo protetto, una struttura mastodontica composta da un edificio articolato su più terrazzamenti, il Santuario prenestino della Dea Fortuna. Gli scavi iniziati già dal luglio ’44, condotti da Salvatore Aurigemma e Giorgio Gullini né restituirono un complesso dallo stato di conservazione sorprendente, e grazie anche ai grandi interventi di restauro comunque necessari, fu possibile aprire l’intera area al pubblico nel 1953, inaugurando anche il Museo Archeologico all’interno degli spazi del palazzo Colonna-Barberini.
Era venuto alla luce uno dei siti archeologici più grandi d’Italia, nel cuore della città di Palestrina di cui ancora oggi rappresenta il nucleo centrale.
Lo sviluppo di Praeneste
Questo enorme complesso monumentale si era sviluppato intorno al II secolo, in una fase di grande prosperità che aveva investito non solo la città di Praeneste, l’antica Palestrina, ma tutte le città del Lazio, che avevano approfittato delle guerre di Roma in Oriente per avviare, con grande successo, fiorenti attività mercantili nel Mediterraneo orientale incentrate sulla compravendita della manodopera schiavistica.
Nell’isola di Delo, il più grande mercato di schiavi di tutta l’area, si vendevano fino a diecimila schiavi al giorno, e dalle iscrizioni sappiamo che i mercanti laziali erano talmente attivi da aver costruito una monumentale agorà detta degli italiani, a cui avevano contribuito, con cospicui finanziamenti, importanti esponenti dell’aristocrazia prenestina.
In questa fase furono avviate enormi opere di ristrutturazione in chiave monumentale di Praeneste, di cui sicuramente la più importante è rappresentata dell’edificazione del Santuario della Fortuna Primigenia.
La Fortuna Primigenia
Il culto della dea legato alle consultazioni oracolari attorno cui si sviluppa l’intero edificio, è sicuramente collocabile in epoca arcaica, quindi di molto precedente all’edificazione del complesso, eppure non abbiamo nessun tipo di reperto, né archeologico né epigrafico risalente a prima dell’età medio-repubblicana, il II sec. a.C. periodo della costruzione dell’attuale santuario che, a parte qualche opera di restauro, rimase sostanzialmente identico durante tutto il periodo imperiale.
Non sappiamo di preciso quando situare l’origine del culto, anche se è indubbio che la figura della dea Fortuna nasca in ambiente ellenistico fortemente influenzato dal sincretismo religioso con il culto egiziano legato alla dea Iside, di cui al museo è presente anche una pregevole statua come Iside-Fortuna per l’appunto.
Le prerogative della divinità erano duplici, dea della fecondità, legata al femminino e alla maternità, ma al tempo stesso divinità oracolare e vaticinante.
Nell’iconografia classica, Fortuna era raffigurata con una cornucopia sorretta dal braccio sinistro e con un timone sul fianco destro. Primigenia in quanto potenza primordiale, forza generatrice, madre di Giove e di Giunone, dea della natura e del destino.
Il suo culto era praticato nella parte sommitale del tempio, nella cosiddetta terrazza degli Emicicli. Nella cella c’era la sua statua che la raffigurava proprio mentre allattava Giove e Giunone bambini.
Il complesso, tutt’oggi, si articola in una serie di terrazze artificiali, collegate tra di loro attraverso rampe e scalinate, realizzate lungo il pendio del colle che oggi termina con il palazzo baronale dei Barberini, sede del Museo.
Pellegrinaggio nel Santuario. Struttura e organizzazione degli spazi
Il Santuario doveva essere visitato da una gran quantità di pellegrini al giorno che venivano non soltanto a venerare la dea, ma anche a chiedere vaticini sul proprio futuro.
Il percorso che doveva portarli alla sommità del tempio, era caratterizzato da una salita ben più ardua di quella che ancora oggi porta dai piedi della città al museo, e coincideva con un rituale di purificazione ascensionale che li guidava fisicamente, ma anche spiritualmente, dal basso verso l’alto.
L’ingresso al tempio doveva avvenire secondo l’ipotesi più accreditata, lungo due rampe che si trovavano ai lati della poderosa sostruzione poligonale (la base del complesso) oggi su via del Borgo, attraverso le quali si accedeva al primo terrazzamento.
Formato da due ambienti simmetrici, qui sono state rinvenute tracce di fontane che dovevano adornare dei bellissimi ninfei. Probabilmente è proprio in questi spazi che avvenivano i rituali di purificazione attraverso l’abluzione e l’uso di erbe sacre. Inoltre è probabile che, dato il forte dislivello, il visitatore potesse approfittare di questi giardini per riposarsi e riprendere fiato, specie nelle giornate più calde e afose, e che ci fosse anche una guarnigione dedita al controllo e alla gestione dei flussi dei pellegrini.
Verosimilmente tutto l’edificio nasceva ai piedi di un boschetto sacro, simbolo del rapporto tra l’uomo e la natura, come del resto suffragato dalla presenza di ambienti analoghi in altri santuari laziali dello stesso periodo come quello dedicato a Diana a Nemi.
Quest’area verde doveva situarsi in mezzo all’abitato appena sopra agli edifici dell’antico foro che terminavano ai piedi del colle.
Una volta purificati e passato il checkpoint di guardia, i pellegrini salivano ancora attraverso due enormi rampe assiali, in parte aperte ed in parte voltate, animate da giochi d’acqua alimentati da fontane, che permettevano di superare un altro forte dislivello.
Alla sommità si accedeva alla terrazza degli Emicicli, un enorme spazio aperto da cui si poteva ammirare, con un colpo d’occhio scenografico straordinario, tutta la vallata che si apriva sui monti Lepini a est, e sui Colli Albani ad ovest.
Sul fondo lo spazio era chiuso da un porticato continuo dietro al quale si aprivano una serie di ambienti voltati a botte intervallati da due emicicli cassettonati a botte.
Probabilmente tutta la terrazza era utilizzata per deporre offerte votive alla divinità e per offerte sacrificali, come testimoniato dal ritrovamento di numerose ossa di animali.
Davanti all’emiciclo orientale si conserva ancora oggi un pozzo, che dobbiamo immaginare coperto da un’edicola circolare, a tholos, sorretta da colonne, coperta da un tetto conico.
La leggenda di fondazione
Secondo Cicerone il luogo corrisponderebbe a quello indicato nella leggenda di fondazione del Santuario in cui tale Numidio Suffustio, dopo numerosi sogni premonitori, avrebbe scavato la roccia in quel punto preciso (dove oggi sorge il pozzo) trovando le sortes, piccole tavole intagliate nel legno di quercia con antiche lettere incise. Il luogo era quello venerato dalle madri perché vi era la famosa statua della dea Fortuna che allattava i piccoli Giove e Giunone. È lì che gli auruspici, i sacerdoti esperti nella divinazione, ispirati direttamente dalla dea, estraevano le sortes per vaticinare il futuro.
Il tempietto a tholos
Al di sopra, un’altra piccola area terrazzata ospitava altri ambienti voltati a botte, verosimilmente botteghe che vendevano ai pellegrini oggetti votivi.
Da questa specie di terrazza intermedia si accedeva alla cosiddetta terrazza della Cortina, una vasta piazza chiusa su tre lati da un porticato coperto con due volte a botte parallele. Al centro si apriva una cavea teatrale, corrispondente a quella che oggi è stata inglobata nel cortile del palazzo del Museo, sotto la quale il porticato diventava un criptoportico.
Il Santuario si concludeva con un piccolo tempietto circolare, di cui i resti oggi sono visibili al secondo piano del museo archeologico, costruito nel punto esatto in cui un ulivo aveva trasudato miele e dove c’era una seconda statua della dea stavolta in bronzo dorato.
Architettura ed esempi coevi
Come possiamo notare il complesso nascerebbe dall’unione di due complessi organici indipendenti: il primo che dalle fondazioni terminerebbe con l’antro delle sortes, ed il secondo con il tempio circolare a tholos sovrastante il teatro greco.
Questo potrebbe far pensare ad un culto duale che si svolgeva, anticamente, come già detto in età arcaica, in due ambienti diversi, e che durante il II secolo, a seguito dei lavori di monumentalizzazione della città, potrebbero essere stati ampliati ed unificati nell’unico complesso architettonico attuale.
Quel che è certo è che l’edificio rappresenta uno degli esempi più felici e meglio conservati di architettura ellenistico-italica di carattere religioso. Probabile modello di una tradizione architettonica che nel Lazio trovò ampia diffusione come nel tempio di Ercole Vincitore a Tivoli, di Giove Anxur a Terracina, di Diana a Nemi e di Giunone a Gabii.
Per informazioni sulla visita guidata vai al sito di Yes Art Italy
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