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Il Silenzio di Velázquez

Diego Velázquez
Diego Velázquez - Autoritratto del 1640. Museo delle Belle Arti, Valencia

Nel Cristo crucificado del 1632 al Prado di Madrid, Velázquez si libera della freddezza che lo caratterizza, rivelando un’intensità che non si pensava fosse nelle sue corde.

Velázquez Cristo Crucificado
“Cristo Crucificado” di Diego Velázquez – (1632) Museo del Prado, Madrid

L’opera è stata accostata alla Flagellazione di Cristo di Caravaggio del 1607 nella versione di Rouen. Per le corrispondenze evidenti: nella barba bifida. Nella forma del naso. Nell’esaltazione del corpo. Nella folta capigliatura che copre metà del volto di Cristo. Per la traiettoria della luce che infittisce ancora di più l’attenzione verso il soggetto rappresentato.

Flagellazione caravaggio rouen
“Flagellazione di Cristo” – Caravaggio, Musée des Beaux-Arts, Rouen

L’istante che Velázquez sceglie nel dipinto è l’arrivo della morte, che libera il giustiziato dalle sue sofferenze. Momento descritto solo nel Vangelo di Giovanni:

“E, chinato il capo, consegnò lo spirito”

Ne deriva che il focus del quadro è affidato al corpo. L’anima ormai è altrove. Corpo che non ammette il “dolorismo” di Grünewald e di Dürer. Che rinuncia alla potente narrazione di Tintoretto. Che va oltre il subire paziente di Reni o di Zurbaràn. Un corpo perfetto. Magro senza essere scheletrico. Si vede la muscolatura di un camminatore – se non fosse spirato sulla croce – con i pettorali e i bicipiti appena deformati dalla tensione delle braccia inchiodate al patibulum. E se non ci fossero le striature di sangue, potremmo paragonare la conformazione del Cristo a quella di una statua greca.

Crocifissione di Rubens
“Crocifissione” di Rubens (1615) – Pinacoteca, Monaco di Baviera

Si può ipotizzare che il modello di riferimento di Velázquez è la Crocifissione di Rubens del 1615 conservato alla Pinacoteca di Monaco. Per la postura del deceduto e per come il pittore di Siviglia configura l’abbandono tragico inerte irreversibile della testa caduta sul torace. Con una differenza rispetto a Rubens non da poco. I tratti del Cristo in croce di Velázquez sono rilassati. Si potrebbe sostenere, rasserenati, si respira una sorta di calma. Sono cessati i rantoli della vittima. La violenza dei carnefici. Le urla della folla. Il lamento dei dolenti. Il nero del fondo e la particolare luminosità mettono in risalto “l’incarnato livido del giustiziato”. Il mondo è immerso in una minacciosa oscurità. Velázquez è riuscito a raffigurare il silenzio.

Si notano anche le ferite inferte dalla lancia di san Longino ancora gocciolanti di sangue, e la scelta di quattro chiodi, tipicamente medievale. Il tutto rispetta i rigidi canoni controriformisti; l’opera fu molto ammirata anche dai Gesuiti. La luce, sempre su ispirazione caravaggesca, è molto chiara e non riporta le ombre.

È da notare l’iscrizione estesa (Gesù Nazareno Re dei Giudei) nelle tre lingue ebraica, greca e latina. Nonostante il soggetto drammatico, il dipinto nella sua totalità infonde quasi un senso di serenità: a ciò contribuiscono le scarse gocce di sangue e i piedi appoggiati su una mensola.

Fausto Politino

Fausto Politino

Laureato in Filosofia, abilitato in Storia e Filosofia, già docente di ruolo nella secondaria di primo grado, ha superato un concorso nazionale per dirigente scolastico. Interessato alla ricerca pedagogico-didattica, ha contribuito alla diffusione della psicologia cognitiva scrivendo per le riviste “Insegnare” e “Scuola e didattica”. Appassionato da sempre alla critica letteraria e artistica, ha pubblicato molti articoli come giornalista pubblicista per “il Mattino di Padova”. Attualmente collabora con la “Tribuna di Treviso”.

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