La periferia romana, la religione, la cecità, l’autismo, sono solo alcuni dei temi trattati da Fabio Moscatelli nei suoi toccanti lavori
Fabio Moscatelli non deve essere il tipo di fotografo che si accontenta di scattare foto per il semplice gusto di farlo; soffermandosi sui suoi lavori si capisce bene che ciò che gli interessa è altro, sta altrove, laddove noi tutti chiudiamo gli occhi e ci voltiamo lui con il suo obbiettivo cattura storie che raramente vengono raccontate, ce le mostra nella loro purezza e verità.
Le fotografie di Fabio non hanno filtri, ci presentano la vita che come suo solito oscilla tra dolcezza e amarezza, guardiamo le immagini e capiamo che lo sguardo di Moscatelli è schietto e senza fronzoli, ma mai severo o eccessivamente duro. Nelle fotografie la realtà che ci viene mostrata è permeata di sensibilità, c’è uno spiraglio che Fabio ci lascia aperto dove arriviamo a capire la bellezza della vita di persone e situazioni alle quali spesso non pensiamo, eppure esistono, li fuori, tutti i giorni.
Come accennato i temi affrontati sono disparati, nel sito del fotografo possiamo indagare il mondo della cecità con la serie “blinDream” che Fabio ha esplorato soffermandosi sugli anziani, il legame con questa tematica nasce grazie a suo nonno, anch’egli non vedente. “Dogs of War” è dedicata ai cani che continuano a lavorare e sopravvivere nelle zone del Centro Italia colpite durante il terremoto del 2016; “Qui vive Jeeg” è una full immersion nella periferia romana Torbellamonaca, una delle tante realtà fatte a pezzi dai media e dai preconcetti, che nasconde invece vitalità e voglia di riscatto.
Tra gli appena citati e altri lavori a spiccare è “Gioele – il mondo fuori” curato da Irene Alison per DerLab. Il reportage sociale che ci trasporta nelle giornate di un bambino autistico e che Fabio ci ha raccontato nella sua normalità e quotidianità; Gioele grazie alla serie ha anche contribuito ad alcuni disegni e una canzone, inseriti nel primo libro a lui dedicato che ha visto la luce nel 2015, insieme a delle foto che lo ritraggono con lo stesso Fabio, a testimonianza di come non sia stato solamente un soggetto passivo ma parte attiva di un’amicizia che dura dal 2014.
Blogging Art ha intervistato Fabio per spiegarci con parole sue la natura dei suoi progetti.
Fabio, navigando all’interno del tuo sito si scorrono i tuoi progetti per poi arrivare, più che a una descrizione, a una sorta di epilogo. Non è la classica descrizione che accompagna il progetto del fotografo, è la vicenda che giunge al termine e con grande tatto ci fa entrare un pelo di più nella tua vita. In alcune serie come “The day Lady D Learned to Fly” (ma non solo) si ha come la sensazione che ti stia rivolgendo non al pubblico, ma a qualcuno a te intimo, un amico o un parente. È una scelta stilistica o una tua esigenza spiegare i tuoi lavori in questo modo?
Le storie che racconto sono sempre frutto di un’esigenza personale, spesso e volentieri dell’indagine personale ed autobiografica; ricostruire tappe ed esperienze della mia vita attraverso immagini che contengono memoria e per questo possono risultare anche ermetiche a volte. Mi rivolgo quindi a me stesso e a chi ha la possibilità di interpretare e fare propria la mia storia, trasformandola da personale a universale.
Osservando il tuo repertorio non sarebbe improprio definirti uno storyteller, un narratore attento a ciò che lo circonda. Le storie che presenti cambiano la percezione e le emozioni di chi guarda, ma c’è un tuo progetto che ti ha cambiato?
Mi piace molto la definizione di narratore, me la sento addosso, anche perché ho smesso da tempo di considerarmi un reporter. E da qui mi allaccio alla domanda; non mi sento più tale da quando ho accettato la sfida fotografica più complicata, raccontare mio padre che ho perduto 26 anni fa. Mi sono trovato di fronte ad una domanda fondamentale: come raccontare una persona non potendosi rapportare fisicamente con questa? Ne è venuto fuori un lavoro evocativo per me, ho vinto una sfida, di cui a distanza di anni, sono davvero felice poiché mi ha permesso di rivivere mio padre.
Molte delle persone ritratte da te non appaiono come vittime, come il mondo tende a descrivercele ma appaiono per come sono realmente. Perché è cosi importante per te mostrare questa verità?
La fotografia documentaria ha questa tendenza di essere paternalista e sfociare spesso addirittura nel pietismo, aspetti che io evito con estrema cura per svariati motivi. Innanzitutto per una questione di rispetto di quei volti e poi a livello fotografico lo trovo molto più sfidante: andare oltre la superficie, sovvertire l’aspettativa dello spettatore. Il fotografo ha sempre la possibilità di scegliere; io ogni volta compio la mia, che non è quella migliore, ma semplicemente la mia.
Il progetto Gioele lo hai affrontato come una normale serie di ritratti o c’erano degli aspetti particolari che volevi fare emergere? Magari per sfatare uno dei tanti miti sull’autismo
Il progetto che ho realizzato insieme a Gioele, è una vera collaborazione in quanto lui ha partecipato attivamente nel definirlo con tutta la sua produzione artistica, dai disegni alla fotografia e finanche una canzone. Quello che volevo far emergere è la sua straordinaria normalità, dell’autismo sinceramente ne ho perso la traccia dopo poche settimane dal nostro primo incontro. Io non posso sfatare miti, posso vivere un’esperienza e riportarla ed oggi dopo otto anni so qualcosa in più in materia e posso dire che la paura del diverso esiste per ignoranza, nel senso di ignorare. Gioele è un essere talmente puro che mi ha spesso portato a riflettere sul concetto stesso di normalità.
Cosa speri di ottenere quando presenti i tuoi progetti al pubblico?
Io spero sempre di poter trasmettere un’emozione, non ho la pretesa di piacere e neanche mi interessa, anche se questo non vuole essere un atto di presunzione. Fotografare è un’esigenza personale che non può avere pretese di compiacimento, ma essere strumento per donare qualcosa agli altri.
Adesso ti poniamo una domanda più personale. Avendo visto che hai una figlia ti chiediamo: tenti o tenterai di trasmetterle l’empatia che dimostri avere nei tuoi lavori? Pensi mai se quando diventerà grande avrà la tua stessa sensibilità rispetto ad alcuni temi?
Assolutamente no perché, e mi vien da ridere, mia figlia è un po’ bastian contrario; si è avvicinata in maniera spontanea alla fotografia dimostrando quanto mi abbia studiato negli anni, come ha candidamente ammesso poco tempo fa. Ha dimostrato di avere un occhio niente male, ma a questo punto non deve leggere questa intervista, mi raccomando.
Fabio hai qualche suggerimento per chi vorrebbe affrontare la fotografia catapultandosi in storie simili alle tue?
Immergetevi nelle storie che avete voglia di raccontare con la mente ancor prima che con lo strumento fotografico; create empatia con i soggetti, fateli sentire attori protagonisti e non comparse passeggere. Abbiamo in mano un potentissimo mezzo, capace di regalare emozioni. Siamo dei privilegiati che hanno la possibilità di scrivere storie immortali.
Fabio Moscatelli insieme a Irene Alison guideranno il loro Workshop intitolato “Sguardi A Sud Est: La Periferia Romana tra Memoria e Gentrification“, che riflette sul paesaggio urbano e umano di una periferia su cui si sono stratificate molte letture (spesso fuorvianti). Il lavoro finale degli allievi sarà esposto presso la sede dell’ExGarage l’11 Giugno 2022.
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