Come ormai sappiamo, Caravaggio dipinge la “Madonna dei Pellegrini” utilizzando modelli presi dal vero. L’opera gli è commissionata dagli eredi di Ermete Cavalletti che acquistano dai frati agostiniani una cappella per dedicarla alla vergine di Loreto.
Ma l’artista non raffigura il miracolo di Loreto, “la casa traslata da Nazareth sulle ali degli angeli e divenuta da allora meta di pellegrinaggio, luogo di guarigione e redenzioni”, ma un palazzo romano, con l’intonaco che si sfalda per l’umido.
Sulla soglia, arrivano due pellegrini. Sfiniti. Pregano in ginocchio e la Madonna si affaccia. Con il figlio tra le braccia. Un figlio bene in carne, come si può notare, paffutello mentre sta benedicendo. Un bambino come tanti, senza aggiunte divine. Deve essere pesante se costringe la madre, scalza, a tenersi in equilibrio incrociando le gambe. Con la testa inclinata la gola e il volto, dal naso affilato e dalle lunghe ciglia, inondati dal chiarore di una luce lunare che da sinistra squarcia l’oscurità, ha poco da spartire con le altre madonne viste nelle chiese di Roma. Anche se ha la classicità di una statua e l’aureola che le circonda la testa, in quella dipinta da Caravaggio non si notano accenti ascetici.
Siamo di fronte ad una donna vera e propria. Ad un corpo la cui ombra invade il portale. Si racconta che fosse Lena Antognetti. Ventitré anni. E che facesse la vita. Ma nella configurazione voluta da Caravaggio manca qualsiasi atteggiamento provocatorio o sacrilego. È una donna qualunque che riverbera una religiosità in cui tutti si possono riconoscere.
Di fronte a lei cadono in ginocchio i due pellegrini che ci danno le spalle. I due bastoni, gli abiti acconciati sommariamente, i piedi non proprio puliti, la cuffia malandata della vecchia, testimoniano il lungo cammino fatto e la costanza della loro fede.
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