Roma, 12 luglio 1555 – il Ghetto di Roma
Il papa Paolo IV, della famiglia Carafa, emana la bolla “Cum nimis absurdum” ed è l’inizio di un profondo cambiamento nelle abitudini dei romani.
Con questo documento ufficiale, il papa afferma che è assurdo che gli ebrei di Roma possano vivere insieme ai cristiani e scegliere comodamente dove risiedere. Si ritiene dunque opportuno adibire un quartiere, nei pressi del Tevere e dell’Isola Tiberina, a zona abitata esclusivamente dagli ebrei.
Si creò un vero e proprio ghetto che sarebbe rimasto integro fino al 1870 con i lavori di Roma Capitale quando il vecchio tessuto edilizio del tutto fatiscente sarebbe stato sostituito dagli edifici di stile umbertino oggi occupanti l’area.
Abolito ufficialmente, dal punto di vista istituzionale, a partire dal 1848, rappresentò una realtà storica per circa tre secoli in cui l’intolleranza religiosa ebbe un volto ben definito, quello di un quartiere malsano in cui luce ed aria entravano a fatica e in cui vigevano pesanti regole, divieti e punizioni.
L’etimologia del termine si presta a varie interpretazioni, dal riferimento al primo ghetto di Venezia, realizzato nella zona del getto dei metalli, al termine ebraico, simile sotto il profilo fonetico, che indica il concetto di separazione ed allontanamento.
In pochi mesi, dunque, un piccolissimo territorio compreso tra i Rioni Regola e Sant’Angelo e delimitato dal fiume, subì un intervento di rapido adattamento alle nuove esigenze della politica papale. Si trattò in primo luogo di organizzare urbanisticamente uno spazio recintato, i cui confini erano Via della Fiumara, la via che separava le casupole dal corso del fiume, via del Portico D’Ottavia e Piazza della 5 Scole; lungo i lati di questo spazio di forma pressoché rettangolare vennero inseriti dei portoni che lasciavano uscire gli ebrei di giorno con l’obbligo di rientro al tramonto.
Intorno ai confini perimetrali del quartiere ebraico, erano diverse le abitazioni di nobili famiglie romane che in qualche modo limitarono ulteriormente l’espansione dell’area. Pensiamo al quartier generale dei Cenci con il loro palazzo e palazzetto arroccati su un piccolo promontorio tra Piazza delle 5 Scole e Via Arenula.
L’edificio dei Cenci, preesistente alla costruzione del quartiere ebraico, presenta ancora una lunga facciata cinquecentesca, mentre le parti più antiche del complesso sono visibili salendo sul Monte de’ Cenci dove si erge anche la facciata di una piccola chiesetta, dedicata a San Tommaso, quasi una cappella privata per la famiglia.
Il palazzo era dunque contiguo al ghetto ebraico e in particolare all’edificio delle 5 scole, ovvero le 5 sinagoghe poi demolite e i cui oggetti decorativi e suppellettili sacre sono ancora visibili all’interno del Museo ebraico.
Dopo Piazza Giudea, demolita nei lavori ottocenteschi, il limite del quartiere coincideva con l’attuale via del Portico d’Ottavia e all’esterno ecco ancora ergersi un altro edificio a testimoniare le presenze aristocratiche della zona: la casa di Lorenzo Manili. Si tratta di un edificio risultante da corpi di fabbrica addossati ma appartenenti a fasi lievemente diverse, uniti da una fascia marcapiano con grande iscrizione a caratteri romani, recante la datazione del 1468.
Diverse anche le chiese cristiane di origine medievale che rappresentavano una sorta di cintura sacra intorno ad un ambiente considerato ostile dal Cattolicesimo. E’ il caso della chiesa di Sant’Angelo in Pescheria, inserita nei propilei del Portico d’Ottavia, antico monumento di età augustea. Come si evince dal suo epiteto, la chiesa, sin dal Medioevo, si trovava inoltre nell’area adibita al mercato del pesce di Roma.
Altra testimonianza di luoghi di culto cattolici immediatamente all’esterno del ghetto è la chiesa di San Gregorio a Ponte 4 Capi. Sorta sulle rovine della casa di San Gregorio, la chiesa aveva una funzione particolare: quella di essere la sede delle prediche coatte cui i sacerdoti cristiani sottoponevano gli ebrei per determinarne la conversione.
Oltre all’obbligo di assistere alle prediche nel giorno del sabato, gli ebrei, nel periodo del ghetto, furono costretti a svolgere solo le professioni di venditori di abiti usati e prestatori di denaro, considerato un mestiere moralmente scadente dal mondo cattolico. Molti medici ebrei, noti tra l’altro per le notevoli competenze, furono radiati dall’attività, salvo eccezioni per prestare le loro cure a personaggi molto in vista dell’ambiente ecclesiastico e aristocratico romano.
La tensione nei rapporti tra romani di fede cristiana e romani di fede ebraica ebbe, in realtà, una genesi del tutto particolare. Se pensiamo infatti che la comunità ebraica a Roma ha origine nell’età repubblicana e che per tutto il periodo imperiale gli ebrei erano perfettamente integrati nella società, ci rendiamo conto di come il cristianesimo e soprattutto il ruolo del Papato abbiano indotto progressivamente e direi, artificiosamente, un inasprimento dei rapporti non del tutto consono al carattere del cittadino romano che non si sentiva minacciato dalle minoranze religiose.
Le forme vessatorie e discriminatorie giunsero infatti ai massimi livelli in quella fase nota come Controriforma Cattolica che vedeva pericoli di eresia ovunque e che determinò appunto la realizzazione di questo quartiere.
Dopo il 1870 la vita per gli ebrei romani tornò ad essere libera e i rapporti di pacifica convivenza furono ripristinati.
Quando la mattina del 16 ottobre del 1943 giunsero i tedeschi a rastrellare il ghetto, i romani seppero ancora una volta dimostrare di non avallare l’odio razzista tra concittadini, offrendo protezione e rifugio come ha svelato la testimonianza di Emanuele Di Porto, il bambino ebreo che si salvò dai nazisti grazie alla solidarietà dei tramvieri di Monte Savello che lo nascosero per giorni nel tram, mentre le camionette tedesche traboccavano di deportati da inviare ai campi di sterminio.
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