“I bambini posseggono delle cose piccole, proprio come loro: un piccolo letto, piccoli libri colorati, un piccolo ombrello, una piccola sedia. Però vivono in un mondo grandissimo; talmente grande che le città non esistono, gli autobus salgono su nello spazio e le scale non finiscono mai”
(B. Alemagna, “Che cos’è un bambino?”, edit. Topipittori)
Si potrebbe ritenere l’infanzia come quel tempo-senza tempo dominato dall’incantamento durante il quale le cose hanno senso solo se non restano mai uguali a se stesse. Stare con i bambini dona la possibilità di vivere del loro tempo di euforia, di scelta, di possibilità mai precluse, un tempo in cui è lecito vagabondare. Tutto ciò, una volta perduta la familiarità con il fiabesco, viene allontanato, rifiutato, non riuscendo ad ammettere che quella, invece, è forma di autentica saggezza.
Ciò che si vuole riportare tra queste righe è l’importanza dell’ascolto, del viaggio in un immaginario che non è lontano dal nostro mondo, ma si trova già nel nostro mondo. Scavare nelle profondità del visibile per andare a prendere ciò che è talmente profondo da risultare invisibile nel visibile, presente e concreto nel reale. L’altro del mondo. Non l’altro da, ma l’altro del; l’altra faccia, l’altro verso del mondo. Nel suo rovescio non ordinabile e dunque più di tutto germinativo.
Diceva Walter Benjamin che non sapersi orientare in una città non vuol dire molto, ma smarrirsi in essa, come in una foresta, è cosa molto istruttiva e tutta da imparare. La musicalità delle parole, il loro ritmo, le illustrazioni, ci possono portare ad abbandonare il mondo consueto non per esplorarne altri, ma per riuscire a scorgere proprio nel mondo reale il suo altro. Ed il bambino è maestro in questo. Perché privarlo dell’ombra del mondo, delle sue pieghe inesplorate in un modo così protetto? Ancor prima delle funzioni che un oggetto può avere determinando e stimolando la creatività – pensiamo ad esempio al teatro di oggetti, al teatro di figura – è all’importanza del viaggio immaginifico che si vuole dare attenzione. Il primo gioco reale della mente.
Si potrebbe dire che l’uomo, da quando esiste, racconta fiabe, come se narrarle fosse per lui una vera necessità. La storia del genere fiaba si perde a ritroso nel tempo, affondando le proprie radici nell’antica tradizione della narrazione orale. Il termine stesso fiaba deriva dalla parola latina fabula la quale, a sua volta, deriva dal verbo for-faris, ovvero “dire”, “parlare”. A differenza di quello a cui siamo abituati a pensare noi, la fiaba non era, in origine, un racconto destinato all’intrattenimento dei più piccoli, bensì a quello di un pubblico adulto.
Gli elementi unificanti non sono al livello dei contenuti, bensì nella struttura: la sostanziale brevità (per essere facilmente ricordata e raccontata), la presenza del magico, ambientazione in tempi e luoghi indefiniti, uso di locuzioni rituali (come il “C’era una volta” ) e il lieto fine. Anche l’andamento narrativo della fiaba segue uno schema universale: un equilibrio iniziale, la rottura dello stesso, le peripezie dell’eroe che lo portano ad un mutamento di status e il raggiungimento di un nuovo equilibrio, il lieto fine.
Propp sottolinea la somiglianza di tutte le fiabe; contenuti di mille forme differenti, ma funzioni dei personaggi secondo schemi immutabili, cardini di ogni narrazione di qualsiasi provenienza culturale e geografica. Addentriamoci allora nelle sue dinamiche e nel come porci affinché il racconto possa essere assorbito con un punto di vista più immersivo. Le fiabe non si leggono da spettatori disincantati, in un rigore assennato, ma si comprendono per folle coinvolgimento in tempi e luoghi incongrui rispetto all’esperienza comune, accettando la sospensione della civiltà e della misura, delle regole del mondo ordinario.
La fiaba non può avere altro compito che quello di insegnare, di mostrare le possibilità del perdersi. Calvino si chiedeva:
“C’è ancora posto per le fiabe in un’educazione moderna?”
Prima ancora di imparare a leggere e a scrivere, sappiamo usare le parole, le manipoliamo, le scomponiamo. È attraverso questa giostra che scopriamo le azioni e le reazioni. La fiaba compie lo stesso sforzo: permette di innescare processi di riflessione e conoscenza, solleva domande, comunica emozioni e desideri. La fiaba non si occupa della sequenza logica delle azioni, di come inquadrare il bene e il male, ma delle soluzioni che l’eroe deve mettere in atto per realizzare la propria redenzione. Esige un notevole investimento emotivo da parte del bambino, il quale, ovviamente, altrettanto si aspetta da colui che lo accompagna a ricevere questo dono. Meravigliosa l’immagine dell’infanzia data da Daniel Picouly, che la descrive come “l’ultimo momento prima di vedere i fili attaccati alle marionette”.
È allora nella fiaba che il bambino può sublimare le proprie paure, affrontandole in una forma simbolica intellegibile. Durante la lettura un ruolo fondamentale lo svolge chi legge o racconta, perché è riconosciuto dal bambino come una persona disponibile e presente e grazie al tono di voce familiare e all’affetto che in esso si manifesta, il bambino impara a riconoscere termini, nomi, verbi. La voce di chi racconta fornisce al bambino sensazioni in continuo cambiamento. Importante passo per supportarlo nella lunga e infinita conoscenza del suo mondo interiore.
Sporgersi in una fiaba, nell’oscurità, nello spaesamento generato da essa, consente di oltrepassare, quasi inconsapevolmente, la soglia della notte, della morte, della rinascita. Cosa di cui abbiamo estremo bisogno per mitigare il modello disincantato di spiegazione del mondo. Essere in accordo con ciò che accade e ancor più con ciò che può accadere. La narrazione fiabesca ci rivela che la realtà non è mai statica e identica a se stessa, bensì sempre mutevole e cangiante a differenza della favola che presenta in maniera precisa una morale, una regola del bene e del male. Perché in un contesto sia educativo che terapeutico è la fiaba ad essere considerata il genere narrativo a cui far maggiormente riferimento? Perché il modo in cui fiaba e favola si rivolgono al bambino è diverso.
Nella favola, dove gli animali sono umanizzati proprio perché il loro scopo è rappresentare diversi tipi umani, l’intento è esortare o fare la satira di un certo costume. Vi è nella favola una specifica impronta moralistica, condensata spesso in un motto o in una filastrocca finale, come un ammonimento rivolto al bambino a comportarsi in maniera corretta (i casi più noti sono le antiche favole di Esopo e di Fedro). Secondo questa impostazione l’intenzione delle favole sarebbe quella di censurare le condotte contrarie alla morale dominante, suggerendo al bambino di praticare il completo controllo di sé per riuscire vincente.
La fiaba, al contrario, non si muove sul piano della predica, ma si spinge oltre. Incoraggia il bambino a fare la sua parte, funzione redentiva nel fiabesco del tutto assente nella favola moraleggiante. I bambini amano ancora ascoltare le fiabe? Sì. La fiaba non è in contraddizione con la realtà del mondo esterno ma, collocandosi ad un livello usabile da parte del bambino, gli consente di familiarizzare con aspetti che oltre a poter rimanere ostici, potrebbero addirittura essergli preclusi. Non alimenta vane speranze; piuttosto sprona il bambino a credere che è sempre possibile fare qualcosa, anche nelle situazioni più difficili. La fiaba lo sa che nella vita non si può realizzare tutto ciò che si vuole. Ma ciò che insegna è mostrare come poter conseguire quello di cui si ha bisogno. L’eroe, prima di riuscire, compie svariati tentativi, ripetendosi anche in fallimenti identici. Nelle fiabe ciò che è in gioco è l’aderenza dell’eroe a se stesso. È attraverso un cambiamento di prospettiva, una trasformazione genuina, una scelta a volte anche dolorosa che potrà trovare il suo lieto fine.
Il bambino alternando i piani della realtà e della fantasia, grazie anche all’aiuto di quel “c’era una volta”, attiva il pensiero razionale e il pensiero fantastico in una oscillazione preziosa per lo sviluppo cognitivo. La fiaba è il luogo dove la logica dell’aut-aut, delle alternative che si escludono radicalmente, non hanno diritto di cittadinanza. È il luogo dove le alternative divergenti diventano reali, le opportunità si realizzano. Non parliamo di un ricamo moderato, ma del rovescio del ricamo, appunto, l’altro del mondo.
“Io so che a me, bambino, appariva vera la luna nel pozzo”
(L. Pirandello, Enrico IV)
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Susi sei Brava,tanti auguri per il futuro (soprattutto nel lavoro e lo studio)un abbraccio 🤗