Daniel C. Blight esamina il fenomeno whiteness, non solo come fenomeno politico e sociale, ma come costrutto visivo.
Daniel C. Blight, scrittore e accademico, con la sua pubblicazione The Image of Whiteness ci porta in una vasta sfera multimediale mostrandoci il ruolo vitale che la fotografia ha avuto negli ultimi secoli, attraverso la propagazione di immagini che hanno consolidato la supremazia bianca.
Blight affronta il rapporto tra fotografia e whiteness nonostante la fotografia abbia da sempre studiato e criticato temi quali razza e colonialismo, ma ciò che si è perso durante queste analisi secolari è la struttura visiva. The Image of Whiteness ci dimostra come la macchina fotografica non è innocente, ne lo sono le immagini da essa prodotte.
Il libro si apre con un saggio introduttivo che prepara i lettori ad analizzare le immagini proposte e offre spunti per capire a fondo il fenomeno whiteness: i paradossi, le falsità, l’oppressione, esaltando artisti contemporanei che lavorano per sovvertire questo sistema e il canone estetico che ha creato.
Dalla fotografia coloniale del diciannovesimo secolo fino ad arrivare ai social media, questo mezzo ha da sempre avuto un ruolo cruciale nel mantenere in carica l’egemonia politica e sociale del whiteness. The Image of Whiteness nasce da un lungo lavoro di ricerca effettuato da Daniel C. Blight, soffermandosi sullo spazio che l’arte contemporanea occupa in discussioni sociologiche e teorie raziali, riunendo sotto il suo progetto diversi studenti, filosofi e sociologi.
Addentrandosi nei suoi studi, Blight, ha realizzato che la nozione di whiteness stava coinvolgendo sempre più persone provenienti da diversi campi quali la pittura, il montaggio e la fotografia. Nel libro si trovano diversi contenuti, tutti spiegati dal saggio introduttivo. Uno dei temi principali è “l’occhio bianco”, che trova le radici nella tecnologia fotografica e nel modo in cui è stata utilizzata dai bianchi, alimentando le problematiche narrative collegate al whiteness.
Il libro attraversa con fluidità le questioni razziali, facendo un passo indietro nella nostra storia e ricordando come persone bianche non erano considerate di razza bianca, citiamo gli irlandesi o discendenti dell’est Europa. Esempi come questi ci mostrano meglio quanto il concetto di supremazia bianca è sempre stato legato ad un’idea di purezza razziale e classe privilegiata.
Blight ci ricorda, attraverso il lavoro di Noel Ignatiev “How the Irish Became White”, di quando gli inglesi invadendo l’Irlanda considerassero gli irlandesi dei selvaggi, nonostante condividessero la stessa pelle e gli stessi tratti, o di quando gli americani non li considerassero bianchi.
Supremazia bianca, whiteness, bianchezza, sono da considerarsi sinonimi gli uni degli altri, ma decentralizzare questi fenomeni è essenziale, e per Blight un buon modo per iniziare è approfondendo l’aspetto visuale della whiteness che troviamo nel suo lavoro. Riformare il dominio bianco e la whiteness non è la strada, in quanto l’unica via sensata sarebbe abolire questa logica, poiché nessuno ne ha bisogno. Blight ci ricorda che:
“C’è un enorme differenza tra l’avere la pelle bianca ed essere di razza bianca”
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