Ecce Homo, ‘Ecco l’uomo”, le parole pronunciate da Pilato, allora governatore della Giudea, mentre presenta Gesù.
E’ il 1500 quando Mantegna lo dipinge. Il dipinto è un magnifico esempio della compenetrazione di elementi prospettici italiani con il disegno realistico fiammingo. Cristo è stato umiliato e flagellato. Ora è presentato al popolo che deve decretarne la crocifissione. Popolo che non si vede, come non si vede Pilato, ma è molto importante. Come ha sottolineato Foucault. Con una duplice funzione: deve essere spaventato dall’orrore del supplizio. E deve essere anche il garante del suo compimento. Con Mantegna prende parte alla punizione stessa, in absentia, insultando, umiliando il condannato. Nella tela la drammaticità raggiunge la massima espressione nella contrapposizione tra la configurazione a mezzo busto, frontale di Cristo. Mortificato nella corporeità in primo piano. Corpo come «principale bersaglio della repressione penale”.
Il corpo. Il volto.
E lo stravolgimento somatico, violento cattivo degli accusatori alle sue spalle. Sguardo vitreo bocche sdentate semichiuse rughe come incise. Sembrano ripetere quanto scritto sui cartigli sopra le loro teste: “Crocifiggilo, prendilo e crocifiggilo”. Su quel corpo che testimonia le lunghe rossastre strisciate dei colpi del flagello i carnefici mettono le mani. Sostengono sadicamente la vittima affinché si mostri in tutta la sua indifesa fragilità. L’estrema rassegnata sofferenza del volto.
Volto unico che incarna un tragico racconto. Per chi lo sa ascoltare può sentire Cristo sussurrare: “Nella mia fine è il mio principio”.
Il cappio.
Gli occhi gonfi e pesti. Le gocce di sangue causate dalla corona di spine. Il cappio al collo e le corde ritorte che legano le mani incrociate prefigurano l’imminente sacrificio dell’innocente. Se pure allo stremo Mantegna, com’è nel suo stile, conferisce a Cristo una statuaria vigorosità. “Il timbro solenne delle antiche icone e la straordinaria modernità per costruzione spaziale e finezza psicologica”.
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