L’orfana dodicenne Sharbat Gula, meglio nota come la Ragazza afgana, con occhi freddi, intensi e magnetici capaci di paralizzare l’osservatore, è il soggetto dell’arcinota fotografia scattata da Steve McCurry nel 1984 pubblicata sulla copertina della rivista National Geographic Magazine. Che lo rese celebre.
La nostra identità acquista rilievo non tanto perché siamo al mondo, ma in quanto possiamo essere visti. Se, come voleva Hanna Arendt, diventiamo visibili e quindi esistiamo perché ci mostriamo all’occhio di un altro, nel XXI secolo tale paradigma raggiunge l’apice.
“Configurandosi come epoca dell’immagine tout court”
Immagine che pare destinata a surclassare sia il linguaggio sia la parola scritta, il cui statuto ontologico sembra più attendibile della stessa vita. Senza la foto di McCurry Sharbat Gula non sarebbe mai nata agli occhi del mondo.
L’istantanea scattata in Pakistan, vicino Peshawar, dentro un campo profughi, attesta l’esistenza di un dramma che continua a ripresentarsi e impedisce che scivoli nell’oblio, fino a diventare l’icona di molte campagne di solidarietà.
E Icons è il sottotitolo della rassegna dedicata appunto a McCurry, curata da Biba Giacchetti, dal 06 ottobre 2021 al 13 febbraio 2022 a Conegliano a Palazzo Sarcinelli. Oltre cento fotografie che mettono il visitatore di fronte al suo stile e al suo codice estetico, agli sguardi che riesce a catturare. Dignitosi, fieri, luminosi anche se riflettono tragici destini. Ai suoi viaggi in Afghanistan, in Birmania, in Cambogia, in India.
In uno scatto McCurry ha ripreso un anziano sarto sorridente, immerso fino alla gola nell’acqua gonfiata dai monsoni. Sulla spalla sorregge un’arrugginita macchina da cucire logorata dal tempo. Che non può abbandonare. L’unico strumento di sopravvivenza.