Presentato in anteprima al Festival di Cannes, Moonage Daydream – il documentario su David Bowie diretto da Brett Morgen, ha avuto una distribuzione cinematografica alquanto limitata. I fan italiani del Duca Bianco infatti hanno potuto assistere alla sua proiezione soltanto il 26, 27 e 28 settembre. Fortunati coloro che l’hanno visto, vien da dire, e che hanno potuto immergersi in una vera e propria odissea nella mente dell’artista inglese.
I’m the space invader…
Moonage Daydream, il cui titolo deriva dall’omonima canzone contenuta nell’album The Rise and Fall of Ziggy Sturdust and the Spiders from Mars e in cui viene presentato l’omonimo personaggio, come è già stato più volte rilevato non è un documentario come tanti altri.
Spesso quando si decide di intraprendere la strada del biopic di un personaggio famoso, e nel caso specifico di un artista che è divenuto icona pop della seconda metà del 900′ e oltre, si sceglie l’approccio del collage di intervista da parte di parenti, amici e colleghi illustri del personaggio in questione.
Questa è stata per esempio la strada battuta per Zappa, (2020) di Alex Winter. Con Moonage Daydream il discorso è sicuramente meno convenzionale.
There’s a Starman watching in the sky…
Brett Morgen, che di Bowie è stato grande fan e che quando questi era ancora in vita tentò di iniziare il progetto di un documentario su di lui, ha avuto infatti un libero accesso all’archivio personale dell’artista e con circa cinque milioni di filmati tra concerti e vita privata. .
Moonage Daydream si configura più come un viaggio onirica, un’odissea spaziale attraverso le parole e i pensieri del suo soggetto principale.
Un flusso di coscienza attraverso le riflessione di un uomo che dopo aver passato un’intera esistenza a indossare maschere e creare della sovrastrutture intorno sè stesso, si mette a nudo disvelandosi senza nessun tipo autocompiacimento.
Si entra così in un turbinio di sequenze frenetiche con intensi montaggi alternati e colori accesi. Frammenti di opere di cultura contemporanea come Nosferatu, A clockwork orange, Un chien Andalou, e ovviamente 2001: A space Odissey si fondono con la vita privata e pubblica dell’uomo Bowie.
Un uomo che vissuto interamente per l’arte, che ha del fatto del lavoro incessare, della sperimentazione, dell’innovazione la sua cifra di esistenza.
We can be heroes, just for one day
Dall’icona androgina di Ziggy Sturdust negli anni 70′, alla trilogia berlinese insieme a Brian Eno al termine della decade, agli anni 90′, preludio di una profetica “fine” portata dall’arrivo del ventunesimo secolo, Moonage Daydream si assume il difficile compito di riassumere in una ideale forma astratta e psichedelica l’epopea di un artista insondabile ed etereo.
Sono così ridotte all’osso la difficile personali. L’infanzia a Londra e il rapporto con la madre e il fratello pilota della RAF, poche le collaborazioni citate se non quella con Eno dopo la fuga nella Berlino divisa dal muro, e il matrimonio con la modella Iman, unico evento che lo tratterrà dal tornare in tour. Il fulcro su cui il film indugia diventa così il rapporto tra Bowie e la sua arte.
Un rapporto basato sull’eterna insoddisfazione a non trovare un senso. Come una chimera per una continua ricerca, in cui l’importante è non fossilizzarsi su sè stesso, sui propri alter ego, addirittura sui propri mezzi espressivi. Dalla musica al cinema (sua passione originaria che avrebbe voluto intraprendere come regista) fino alla passione più intimista per la pittura.
Moonage Daydream in definitiva più che un film, un documentario o un biopic è un’esperienza. Un’esperienza che cerca di raccontare l’irraccontabile e forse proprio per questo risulta incredibilmente tangibile e concreto.
Blame it on the black star Blame it on the falling sky Blame it on the satellite That beams me home…
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