È sempre affascinante pensare all’uomo di migliaia di anni fa e alle sue pratiche. Lo è ancora di più se si cerca di paragonare l’uomo di oggi a quello di secoli e secoli scorsi. Il mestiere dell’antropologo si addentra in queste analisi difficili sia dal punto di vista tecnico che dal punto di vista pratico, esplorando società sperdute ed isolate che danno quel gusto esotico e di avventura che rende questo mestiere sempre un po’ romantico.
Gli studi antropologici sono i più disparati ma qui si riporterà uno studio in particolare, quello del rito sacrificale. Lo si farà partendo dalle teorie della scuola funzionalista, di cui tra i massimi esponenti ci sono Émile Durkheim e William Robertson Smith. Sorvolando sulle loro biografie, ci si immergerà subito negli studi sul sacrificio. I due studiosi sono stati tra i primi ad interessarsi all’analisi della religione sotto un profilo sociologico.
Robertson Smith: il rito sacrificale dei semiti
William Robertson Smith è stato un antropologo scozzese. Nella sua vita compì ricerche sul rito sacrificale nella religione semitica da cui trasse uno scritto datato al 1889, col titolo Lectures on the religion of Semities. In questi studi l’assunto principale riguarda la funzione del rito del sacrificio.
Il rito si riconosce poiché è un banchetto a cui partecipano i membri della società, la pietanza consumata è sempre sacra e rappresenta la società stessa, i fedeli se la spartiscono così da creare un vincolo inscindibile tra loro. Si vede infatti che la funzione di questo rituale è quella di creare l’idea stessa di comunità, creare un forte legame tra tutti i membri della società, tramite la consumazione in comune del pasto sacro.
Analizzando anche il rito nel totemismo, Robertson Smith denota che un banchetto consumato in comune produce un senso di comunità indispensabile per l’unione sociale. È dal rito dello stare insieme che si creano i legami sociali.
Durkheim: il rito del sacrificio nella religione totemica
Gli studi di Robertson Smith vengono ripresi dal celebre sociologo francese Émile Durkheim. Esso lo approfondisce nel suo ultimo studio condotto, Le forme elementari della vita religiosa, edito nel 1912. Il testo è una fantastica ricerca sulle pratiche rituali e sull’idea di sacro nella religione totemica. Anche da questi studi durkheimiani emerge l’importanza del rito come una pratica aggregativa. Il banchetto sacrificale, che riunisce tutti i membri della comunità, produce quel senso di appartenenza altrimenti impossibile in una società come quella totemica che divideva nettamente il tempo del lavoro, quotidiano (identificato dal sociologo come profano) e quello della socialità (sacro). In Durkheim la differenza principale nel tempo del sacro è quella che lui definisce “effervescenza collettiva” quello status di eccitazione ed esaltazione che anima gli uomini quando si uniscono in grandi feste.
Il fatto stesso di consumare la carne dell’animale totemico, ovvero l’animale che simboleggiava la società, crea come un vincolo tra gli appartenenti alla comunità. Il Totem, così come viene definito il simbolo, è quasi un patto sociale, e il banchetto in comune sancisce nello stesso momento la sacralità di esso e il legame tra i membri. Così come il sacrificio, Durkheim passa in rassegna ogni pratica rituale e afferma che ognuna di esse è fondamentale per la produzione del legame sociale.
I rituali d’oggi: cosa rimane?
Gli studi sul rito sacrificale sono variegati e le teorie che ne emergono sono molteplici. Indagando però la linea di pensiero della scuola funzionalista, sorge una domanda spontanea per chi cerca in ogni studio classico un riscontro contemporaneo: che ne è rimasto oggi dei banchetti in comune e delle pratiche rituali in generale?
Analizzando le teorie dei due antropologi vediamo che oggi lo scenario è profondamente cambiato. In primis la società frammenta nel quotidiano il tempo individuale e quello sociale, mentre le società totemiche e semitiche dividevano radicalmente i due. C’era il tempo dell’unione sociale, rituale, dell’effervescenza collettiva e poi quello quotidiano; oggi i due tempi si sovrappongono nell’arco della giornata.
Tuttavia alcuni retaggi di rituali sociali oggi sono rimasti, pur con le loro differenze, in molti luoghi del mondo e d’Italia. Questi si notano soprattutto nei paesi dove le tradizioni vengono ancora praticate e sentite con grande spirito di conservazione, come nel Sud Italia o nelle piccole cittadine della penisola.
È interessante, in questa istanza dove non si può approfondire fino in fondo ogni aspetto, analizzare soprattutto le sagre di partito e di paese.
Sagre di partito
Per quanto riguarda le feste di partito, molti sono stati gli studi degli antropologi, come quello di David Kertzer, che si è occupato delle feste del PCI. Il principale assunto degli studi che riprendono Durkheim in senso politico è appunto che una festa di partito produca quell’appartenenza che poi sfocia nella sacralizzazione della fazione politica.
È proprio questo condividere il banchetto, questo stare insieme e consumare cibo in collettività che crea l’unione interna. Proprio come durante il rito totemico e come nelle pratiche rituali dei popoli più antichi c’è una creazione identitaria che unisce i presenti. Una delle grandi differenze tra il mondo antico e il mondo contemporaneo sta proprio nella frammentazione dell’identità. Una volta l’appartenenza era alla comunità, ora può essere al partito come alla squadra di calcio, nessuna esclude l’altra.
Sagre di paese
Le feste e le sagre di paese invece, determinano un tempo del sacro, in cui tutto il paese si ferma e si dedica alla festa comune. È questo spazio e tempo del sacro (non a caso il termine “sagra” deriva dal termine “sacro”) a creare l’identità dei concittadini, rafforzando i legami interni. Questo crea anche l’identità culturale e la cultura materiale di una determinata comunità, che contribuisce poi a rafforzare l’identità interna. Anche da un punto di vista enogastronomico questo concetto è molto forte, difatti la cultura autoctona culinaria è identitaria per i concittadini della comunità. Questa, seppur con moltissime differenze e sfaccettature, quasi sostituisce il pasto sacrificale.
L’unione, i banchetti, il consumare le vivande tutti insieme, le danze e i canti e l’effervescenza collettiva che accompagna tutto il momento della festa, producono quel senso di appartenenza ad una comunità ben precisa.
Questo avviene certo con le giuste differenze d’intensità. L’intento è scoprire i retaggi rimasti di alcune pratiche umane e non paragonare in toto i rituali di antiche comunità ad usanze del nostro tempo. Difatti un approfondimento completo richiederebbe un saggio critico e non un articolo. Quello che interessa, però, è aprire uno spazio di riflessione, che ognuno potrà approfondire meglio, sull’importanza della socialità e soprattutto di quella che deriva da banchetti e rituali aggregativi.