Stati di normale euforia II
…e così!
(parte I)
Illustrato da Marta Stabile
Non so come accadde ma da quel giorno decisi che avrei potuto almeno tentare.
Da quella posizione, dalla mia scrivania, bastava girare lo sguardo solo un poco e la fessura sembrava invitante.
Ricordo che forse solo un anno prima da quel punto sul muro era caduto rovinosamente in terra un quadro in piena notte. Niente di che naturalmente, tanta paura per un nulla ma la parete bianca oltraggiata era stata più e più volte motivo di discussione con mia moglie.
Stuccare il foro?
Ovviamente!
Ma poi come metterla con la macchia e l’ombreggiatura del quadro?
Ritinteggiare la parete?
Semplice! Ma sarebbe apparsa più chiara e luminosa rispetto alle altre e da lì allora, come da troppo tempo accadeva nella mia vita, tutto era rimasto in sospeso… tranne il quadro.
Il chiodo aveva slabbrato la fessura, sgrattuggiato la superficie bianca in modo irriverente e così il minuscolo anfratto aveva preso le sembianze d’una oscura, minuscola cavità ove si accede attraverso un frastagliato ingresso in penombra.
“Puoi alzarti e toccarlo,” mi ero chiesto pensando al motivo di quel tentativo che non lasciava presagire niente di sano.
“Non lo fare! Non provarci! Potrebbe essere senza ritorno,” avevo risposto quel mattino ad una voce che mi partiva da un angolo ancora non ben identificato del mio corpo ma un fastidioso indolenzimento all’addome, lì di lato, forse poco sotto il costato, lasciava trasparire la sua possibile fonte.
“Puoi venire un attimo?” Aveva urlato infastidendomi mia moglie dal lato opposto della casa ma quel richiamo per quel giorno mi salvò perché alzandomi frastornato capii che sicuramente era stata la notte scorsa, sì, quel bicchiere di troppo, a causarmi quel generale stato di spossatezza che si rifletteva sul mio momentaneo ed instabile equilibrio mentale.
“Suvvia! Niente di particolare,” buttai lì.
“Perché alzandoti hai girato sulla tua sinistra? Eppure la porta della tua camera è sulla destra della scrivania ed è da lì che sarebbe stato ovvio uscire. Fai sempre così no? Ti conosco. Rispondimi!”
E perché mai avrei dovuto dare una risposta ad un quesito così strampalato e recondito?
“Il caso. Se proprio lo vuoi sapere è solo per una – non ragione – che ho spostato la mia sedia indietro, ho fatto leggera forza sui braccioli e via, sulla sinistra, ok?”
Per quel giorno toccandomi o forse solo accarezzandomi l’addome avevo tacitato quell’irriverente Io che mi chiedeva spiegazioni per un’azione tanto banale.
“Possibile mai che per un favore così, sembra sempre di vederti con i carboni sotto i piedi,” aveva sottolineato mia moglie pensando che la mia fretta rientrasse in uno schema solito ed insopportabile. Insomma, solo una questione di carattere.
Non era così!
Quel giorno e per sempre non sarebbe più stato così.
Sarei cambiato io ed il mondo intorno a me.
Avrei cancellato l’ordinario per divenire un nuovo principe e la mia nobiltà sarebbe stata finalmente riconosciuta in una parola ed una sola. In quell’oscuro moto afono delle labbra, un intendimento dello sguardo, una indeterminata postura che lascia trasparire l’azione senza mai ordinarla: il silenzio.
Avrei ordinato a me stesso ed all’intero pianeta d’aiutarmi a dar vita all’evento. Allo straordinario accadimento che non ha ragioni d’esistenza se non nel mio personale miracolo.
Tutto sarebbe avvenuto nel – silenzio -, fino all’atto finale.
Tornando in camera abbassai lo sguardo e mi tuffai sui libri negandomi quel lato sinistro, in alto sulla parete.
“Ora giro un poco la lampada, sui fogli non cambierà nulla, avrò la stessa luce ma quel fottutissimo buco sarà in ombra. L’oscurerò fino a farlo morire. Fino a negarmelo. Non ti voglio vedere mai più,” mi ripetei senza accorgermi che nel rivolgermi a lui l’avevo reso solo un poco più amichevole, caro.
Non lo guardavo ma gli parlavo.
Per quel giorno non combinai nulla ma era evidente che la mia posizione sulla scrivania era cambiata. Direi un poco obliqua e tale da richiedere una leggera traslazione di tutto il corpo per portare lo sguardo lassù.
“Avete dello stucco bianco per pareti?” Chiesi il giorno dopo fermandomi dal solito ferramenta.
“Certo, due euro per quel sacchetto lì.” Rispose indicandomi lo scaffale vicino alla porta d’ingresso.
“Ma è tantissimo! Mi serve per un foro lasciato da un chiodo.”
“Non si fa cattivo. E’ solo gesso e poi sono due euro,” m’aveva risposto spazientito.
“Va bene, eventualmente ripasso più tardi. Tanto il lavoro non l’avrei fatto subito.” Sottolineai cercando di togliermi dall’impaccio d’un acquisto non voluto.
Non desideravo chiudere quel buco e perché allora ero passato lì per decretare la strategia della sua morte?
Un ultimo moto d’affetto gli aveva restituito la sua vita ed ora affrettavo il passo in strada per correre a vederlo, a dirgli “ti giuro, non avrei mai voluto. Sono stato un pazzo. Ti prego perdonami.”
Accelerai ancora e presi quasi a correre. Aprii il portone e furono gradini due a due per arrivare esausto alla porta di casa. Infilare di corsa la chiave nella serratura e correre in camera, ma sull’uscio mi bloccai.
“Dai ci vuole un contegno. Non entrare in questo modo. Fai come se nulla fosse accaduto e posa la tua agenda sulla scrivania ehh… non prestargli alcuno sguardo.” Risposi con naturale ubbidienza a quella voce che reclamava però ossequiosa un mio comportamento più consono all’evento.
Poggiare ed aprire l’agenda. Accendere la lampada. Scostare la poltrona e sedermi non mi fu naturale. Ero impacciato, vergognoso come ad un primo incontro adolescenziale, ed ancora una volta girai lontano da lui il mio corpo.
“Da lui?”
“Da lui?”
“Vergognati! E solo un cazzo di buco su una parete e son due giorni che ti spacchi il cervello per un – lui – che non esiste e lo eviti.” Mi urlava quella voce che ora andava prendendo consistenza ed un più chiaro luogo di provenienza.
Un punto, una freccia piantata lì nel mio corpo.
“Pensi che abbia paura? Pensi che non possa andare lì e buttarci dentro il mio sguardo? Pensi che non ce la faccia a toccarlo? Pensi che non possa entrarci?” Avevo risposto muovendo un poco le labbra per emettere solo un flebile sibilo che aveva le chiare sembianze d’una esplicita sfida tra due nemici oramai dichiarati.
“Entrarci? Ahh… questa è bella! Avresti l’ardimento di entrare lì dentro? Riusciresti a renderti tanto piccolo, oscuratamene infinitesimo da poter entrare in un cazzo di buco lasciato da un chiodo? Intendo che saresti in grado di toccarne il fondo. Stiamo parlando di questo no? Non fare il paraculo con me. Non provare a barare. Quando intendo lì dentro dico come quegli insetti dei quali non riconosci più la loro esistenza. Ecco! Una tarma. Sì come una tarma. Hai mai visto una tarma? Certo che no! E’ chiaro quel che voglio dire pezzo di merda?”
Perché mi parlava così?
Continua…
Racconto finalista al Premio Genti 2010. Dal racconto Stati di normale euforia II – “… e così!” – ne è stata tratta un’opera teatrale che si è aggiudicata il primo premio come – opera d’innovazione – alla rassegna di drammaturgia “Schegge d’Autore 2012”.
Le illustrazioni che accompagnano il racconto sono di Marta Stabile
Instagram: @marta.stab
Behance: Marta Stab.
Linkedin: Marta Stabile
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